Rivista "IBC" XXV, 2017, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne

Al San Domenico di Forlì si conclude un percorso che ha raccontato momenti salienti dell'arte del primo Novecento.
Art déco, un cerchio che si chiude

Enzo Vignoli
[collaboratore della rivista "OLFA - Osservatorio letterario Ferrara e l'altrove"]

La sintesi più centrata della “dodicesima mostra”, presentata il 10 febbraio presso i Musei San Domenico di Forlì e visibile fino al 18 giugno – Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia – è probabilmente quella espressa da Antonio Paolucci, presidente del comitato scientifico del progetto forlivese nel suo complesso.
La sua prosa asciutta e concisa è spesso servita da cappello introduttivo, all’interno dei cataloghi, a corposi e assai documentati saggi di carattere critico storico, affidati ai massimi esperti delle stagioni dell’arte indagate di volta in volta. Ma, nel caso della mostra attuale – come per quelle dedicate al Liberty nel 2014 e a Boldini nel 2015 – la scrittura di Paolucci si prosciuga ulteriormente, non perché segnali un minore coinvolgimento, ma perché – pensa chi scrive – le stagioni esplorate portano (soprattutto il Liberty e il Déco) a difficili accostamenti ai nostri giorni. E qui diventa più arduo impostare una critica storica e sociale.

Nel saggio “Spazi e stili déco: D’Annunzio, Tamara, Gatsby”, Marco Antonio Bazzocchi riferisce di un “senso di vuoto e di paura che pervade un mondo proiettato a velocità folle, dove prevale ormai il versante tecnologico”. E tale denuncia sembra restare in sospeso fra il nostro presente e “gli anni ruggenti”.
I giornalisti sono soliti ascoltare, durante le conferenze stampa, parole di elogio per gli organizzatori delle manifestazioni e di ringraziamento per il sostegno economico offerto dagli sponsor. Nel caso di Forlì, si avverte la giusta soddisfazione di un collettivo – le varie istituzioni cittadine – che ogni anno aggiunge un tassello in più a quella che può apparire la complessa stesura di una sinfonia corale non ancora ultimata ma che, anzi, promette nuovi movimenti.

A volte si tende a unificare le stagioni del Liberty e del Déco, quasi ci sia un unico filo conduttore che unisce gli ultimi anni dell’Ottocento ai primi tre decenni del Novecento. Sia sotto il profilo formale, sia sotto quello storico ci troviamo, invece, di fronte a due stagioni ben distinte, se non addirittura in netta contrapposizione. Il tratto maggiormente caratterizzante del Liberty è quello dell’espressione floreale, l’utilizzo di linee curve e morbide che richiamavano espressamente le forme vegetali della natura, rifacendosi in parte all’esperienza preraffaellita. Siamo negli euforici anni della belle époque. Si potrebbe dire che il Liberty o Art Nouveau è l’arte dell’illusione, l’esplosione gioiosa di un sentimento di fiduciosa speranza in un futuro senza conflitti bellici e di superamento di ogni contrasto interiore. L’Art déco, invece, è il momento del risveglio da quel sogno, la stagione del ripiegamento su se stessi, della disillusione, della grande paura, ma anche della rimozione del lutto provocato dalla tragedia della prima guerra mondiale. Ci si rivolge, allora e in modo consolatorio, a un passato glorioso. Si recuperano gli stilemi più rigorosi propri dello stile neoclassico o del mondo classico stesso, rivisitato “attraverso un grafismo estenuato ed elegante, estraneo a un’idea di monumentalità che, invece, sarà appannaggio degli anni trenta” – come afferma il curatore Valerio Terraroli. Ma ci si volge anche alle forme più lievi del Rococò, ai miti esotici dell’antico Egitto, delle civiltà precolombiane o dell’Oriente.

Ancora il curatore afferma che il Déco è “un fenomeno che è da considerarsi […] più un gusto permanente che non uno stile teoricamente giustificato e rigorosamente applicato”. L’avvento di questa stagione sembra soddisfare la necessità psicologica di una classe borghese che ha vissuto la tremenda batosta di una guerra che, pur formalmente vinta, ha apportato esiti catastrofici, lutti, tragedie e lo stravolgimento totale delle aspettative. Forse una fuga vera e propria o, volendo usare un’espressione popolaresca, il tentativo di salvare capra e cavoli. Si trattava di preservare un’egemonia politica e sociale sfruttando una tendenza estetizzante, “salvaguardare i valori decorativi”, i cui stilemi andavano aggiornati “per tradurli in valori di prestigio e commerciali”.

Si tennero in piedi due canali distinti e contraddittori, la “bellezza elitaria” che doveva soddisfare le esigenze delle classi egemoni e una “bellezza per tutti”, per tenere a bada le classi subalterne ed evitare che cadessero preda delle istanze innovative espresse dalle avanguardie espressioniste.
Paolucci e Terraroli affermano poi, concordemente, che la parola glamour, così in voga oggi, entra a far parte con forza e di diritto, nel dibattito sull’Art Déco.
Stranamente, il termine “déco” viene coniato verso la fase conclusiva di questa stagione, quasi che la vicinanza protrattasi per alcuni anni, consenta solo allora quella sorta di cameratesca familiarità. O forse si trattò di un altro modo di rimuovere la paura del presente. Dalla dicitura dell’ Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriel Modernes svoltasi a Parigi nel 1925, scaturì, infatti, la sintesi “Art Déco”.

La mostra di Forlì offre uno sguardo d’assieme veramente impressionante su tutte le produzioni artistiche che “fecero tendenza” in quegli anni. Ben quindici sono le sezioni e oltre quattrocento le opere visibili, buona parte delle quali a testimoniare “il valore che avrà per decenni la decorazione degli interni, considerati l’unica illusione con cui l’uomo può far fronte ai rischi che il destino e il mondo esterno quotidianamente presentano, per ritrovare le ragioni di un nuovo ambientamento nel mondo […]”.
La prima sezione analizza “Le radici del gusto déco. Tra secessione ed espressionismo”. E le due opere che si presentano subito allo sguardo dei visitatori consentono di calarsi nei momenti d’intersezione o fanno cogliere le differenze fra le due stagioni del Libertye delDéco. La tempera Notte d’estate, dipinta nel 1928 da Luigi Bonazza, non ha più i colori freschi tipici dello stile floreale, ma tinte livide che ritraggono figure stilizzate; non vi appare l’imitazione della natura, ma una rappresentazione artificiosa e schematica del mondo animale e naturale, piegati a nuove esigenze espressive. Metteremmo lo squisito Busto femminile progettato da Gio Ponti tra i prestigiosi esempi di “bellezza elitaria”, allo stesso modo di numerose altre produzioni in maiolica, in ceramica o in terraglia smaltata realizzate dalla Richard-Ginori e visibili in mostra. Queste espressioni di creatività sembrano, però, sfuggire ad ogni tentativo di etichettatura, sospese come sono tra le definizioni di arte pura, funzionale o decorativa, per quanto – nel caso del Busto femminile - “la decorazione prevale sull’elemento plastico” e “la scultura diventa soprammobile”.
Un discreto spazio è riservato, poi, ad alcune sculture di Adolfo Wildt, già ammirato all’interno della mostra dedicata al Liberty e protagonista assoluto dell’indimenticata esposizione del 2012.

Chi scrive, non ritiene fuori luogo definire Gabriele D’Annunzio la personalità più glamour dell’epoca. La sezione “Lo specchio di Narciso. D’Annunzio e il Vittoriale” presenta un ritratto del Vate dipinto da Astolfo de Maria fra il 1921 e il 1922, come pure alcuni preziosi manufatti ospitati nella villa a Gardone Riviera. Il catalogo riporta una bella riproduzione fotografica del modello personalizzato per D’Annunzio della celebre e lussuosa automobile Isotta Fraschini e, all’interno del volume, nel già citato scritto di Bazzocchi, si traccia, in una densa analisi, il rapporto claustrofobico incombente fra la parola dannunziana, l’arte pittorica di Tamara de Lempicka e lo stile déco del Vittoriale.
Con riferimento al termine francese silhouette, Bazzocchi analizza poi la deformazione che in quegli anni cominciò ad attuarsi dell’immagine della donna: “[…] il corpo femminile diventa decorativo proprio in quanto viene ridotto a segno […]” e, praticamente invisibile, si materializza e diventa significativo solo grazie all’abito che lo riveste. A tale proposito, la sezione “Arti, artigianato e industria. Tecniche e materiali.”, presenta diversi esempi della collaborazione che Ernesto Michahelles, detto Thayaht, ebbe con il mondo della moda.
La monumentalità cui si accennava in precedenza, e che subentrerà allo stile ricercato dei primi tre decenni del secolo, segnala un nuovo corso del mondo dell’arte. Ma già nel 1920, lo Studio del Grattacielo S.K.N.E. New York di Pietro Portaluppi, sembra presagire la crisi del gusto déco prima maniera. Dall’Europa ci si sposta verso gli Stati Uniti d’America e lì verranno edificati grattacieli quali il Chrysler Building e l’Empire State Building, simboli imponenti del déco americano.

Non potendo soffermarci su tutti gli aspetti della mostra, lasciamo alla curiosità del visitatore, che speriamo di avere stimolato, il compito di guidarlo all’interno del prestigioso museo forlivese.

Catalogo

Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia, a cura di Valerio Terraroli, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2017.

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