Rivista "IBC" XXVII, 2019, 2

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Recensione a Roberto Barbolini “L’ombelico del mondo. Viaggio sentimentale intorno alla città della Potta”.
A proposito di Modena

Cristiana Minelli
[Giornalista]

Modena è provincia e mondo. A un tempo. Se incappi in un pigmeo nella foresta pluviale e gli dici “Ferrari” lui ti risponderà “Maranello”. Provare per credere.

Tripudio indiscusso della creatività, è anche regina del paradosso. “Modenesità”, ad esempio, è un termine inesistente e bizzarro chiamato a evocare un quid impalpabile, che pure esiste. Non si potrebbe definire altrimenti questo grembo vivace di artisti, intellettuali, cantanti, campioni, stilisti e chef pluristellati.
E proprio al quesito che discute dell’esistenza stessa del provincialismo si riferisce, in un certo senso, l’ultimo libro di Roberto Barbolini intitolato “L’ombelico del mondo. Viaggio sentimentale intorno alla città della Potta”, edito da Asterione per la collana “Aemiliana”.

É un romanzo (o un saggio) per frammenti, una costellazione, il ricamo stellare di un sogno padano e celeste insieme, che pone, da subito, alcune questioni fondanti: la “modenesità” è una categoria topografica, psicografica o dello spirito? Scrivere di luoghi, persone e memorie, pescate dall’autore come un orso a caccia di salmoni – appostato cioè in quel preciso punto geografico dove risalgono la corrente e non altrove, in questo caso un ombelico – è da considerarsi una diminutio solo perché la vanvera fa rima con Modena? Solo perché la città della Potta è a un tempo centrica ed eccentrica, prima astronave e poi pianeta attorno al quale si fa strada l’orbita del ragionamento?
Per esempio: Modena, fra gli altri, custodisce un tesoro da cinquecentomila figurine, oggi visibili in un museo unico al mondo, e la figurina come oggetto cult è stata inventata e collezionata qui, il celebre “ce l’ho, ce l’ho, manca” è un po’ il “m’ama non m’ama” dei geminiani. La città all’ombra della Ghirlandina veste alla moda sulle passerelle più esclusive, conquista mercati, apre boutique e sa cucire con ago e filo abiti da sogno per star internazionali, capace com’è di proporsi come Cenerentola al ballo, favolosa, fosse anche solo per una notte.
Ma la sua caratteristica più magica e irrinunciabile è la sua follia, la corda pazza di pirandelliana memoria. Unita a una buona dose di cocciutaggine dà vita a quell’energia che l’ha sempre sostenuta e che oggi la spinge come un motore immobile nel l’immensità della nuova società globale.

E la cultura? Come disse Pier Paolo Pasolini “in provincia di Modena un uomo colto è con un piede nella melma piccolo borghese e con l’altro nei regni della morte”. Questo il punto di vista del letterato. Al lettore, quindi, non resta che sfogliare il libro, una pagina via l’altra, per vedere affiorare sentimenti, insieme a dotte esegesi, battute sagaci, squisite leccornie, argute speculazioni, brillanti frequentazioni, personaggi e fantasmi che, come quello dell’opera, proprio non possono fare a meno di fare la loro comparsa.
Forse, a sua insaputa, “L’ombelico del mondo” è anche un testo teatrale, dove un coro greco di vivi, morti, vampiri e gufi impagliati dice la sua. Con tutte quelle soubrettes che ancora entrano ed escono dall’Hotel Canalgrande sembra di andare a braccetto col passato, sotto un portico dove si possono incontrare Antonio Delfini, Ciro Menotti e il Marchese De Sade, e, seduto in quel caffè, sornione e bizzarro, Mario Molinari.
Forse, a modo suo, è anche un rimedio, uno di quegli impiastri che i farmacisti facevano mettere ai malati per curare malanni veri e immaginari. È l’asse viario di una topografia psicogeografica, è teoria e pratica del gnocco e del tortello fritto, di rendez-vous “con le gambe sotto il tavolo”, è profumo di palude e di luoghi lacustri. È nebbia e insieme magone, perché “Modena com’era è anche Modena come continua ad essere” scrive Barbolini, ed è invisibile, anche se c’è.

È un caleidoscopio dotto e a un tempo un po’ lisergico, che scruta scrittori, disserta di scritture, e che, con la precisione di un monaco, disegna miniature.
Un modo per scoprire che un fiume divide l’orizzonte modenese in Medioevo e Illuminismo, e che la città non è distesa ma raccolta intorno a una via Emilia che, appena fuori le mura, somiglia a “un vecchio pitone in agonia”.
Che altro c’è? La celeberrima erre di Francesco Guccini, l’humus inconfondibile delle storie di Giuseppe Pederiali, vivificato da spade, sortilegi, fionde e palle di neve, i misteriosi, nonché gaudenti, acquerelli di Giuliano Della Casa, l’interesse per il corpo che si fa letteratura, ricordando, anche accademicamente, Gian Paolo Biasin.

C’è il Delta Del Po, Palazzo Ducale, e FUOCOfuochino, la casa editrice più piccola del mondo, ci sono preziose lezioni su come una storia diventi un intreccio, e, siccome siamo tra la via Emilia e il West, non mancano neppure i cow boy.
Pesci veri e immaginari, Swingin London e Swingin Modena, capelloni e aristocratici, anime e sagome, Edmondo Berselli e una pioggia di batraci. E poi Bonvi, che ha disegnato un esercito improbabile alla conquista del mondo con tanto di elmetto in testa. Sgangherati, come le Sturmtruppen, i modenesi parlano anche il tedeschese. Non è poco.
Non manca il sesso, con un cameo dedicato alla Gina della Spider Rossa e il racconto di come nacque l’antologia della poesia erotica italiana, scritta da Barbolini a quattro mani con Guido Almansi per Longanesi.
C’è l’umanizzazione degli animali, a partire dal cane di Giorgio Giusti, che per l’appunto, si chiamava Uomo, e la mutazione fantastica dei personaggi, nel loro essere drago, vampiro o foionco secondo paragrafo.
C’è la realtà con tutto il suo contraltare, se è vero, come è vero, che “il miglior pesce è un porco”.
È un carnevale, questo libro, così pavironico, mascherato e festoso. Ed è un funerale questo libro, così nostalgico, struggente e mesto.

Dirli tutti, uno per uno, attori e comparse di questa commedia, è impossibile. Ma all’appello, anche se non sembra, qui rispondono anche gli assenti.
Barbolini lo dice col barbiere degli dei, altra voce di questo coro, “nel nostro mestiere è tutta una questione di sfumature”. 
“I modenesi – diceva Antonio Delfini – li direi tedeschi vestiti da inglesi, con qualche liberalità francese di costume insieme a un’eccessiva sentimentalità italiana, che da noi diventa magón (cioè lo stato di ansietà che arriva al panico). Bisogna essere dotati di grande intelligenza perché un carattere modenese possa umanisticamente resistere agli anni”.

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