Rivista "IBC" XXVII, 2019, 4

biblioteche e archivi / storie e personaggi

Federico Fellini oggi.
Il ragazzo di provincia

Rosita Copioli
[poetessa e saggista]

Se oggi ci domandiamo chi è l’artista più completo del Novecento, il più profetico, rispondiamo: Federico Fellini. Dove – si è chiesto Kundera – dopo Stravinsky, dopo Picasso, si trova un’opera più bella, d’una immaginazione più potente?
Per lui, nato a Rimini il 20 gennaio 1920, il cinema era ancora un’arte quasi nuova, fatta dalla luce: “pittura, ancor prima di essere letteratura o drammaturgia”; un’arte “mista” nella fusione sonora, che tendeva all’“opera totale”. Distaccandosi dal magnete di Rossellini, inseguendo l’estro inesauribile dell’immaginazione e della mano, tanto capriccioso e volubile, quanto esigente e preciso, Fellini ha restituito con ciascuno dei suoi film – da Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957), alla svolta epocale de La dolce vita (1959)e Le tentazioni del dottor Antonio (1961), fino a La voce della luna (1990) una rappresentazione memorabile della storia italiana, e più nel profondo, dell’anima umana. Ha attraversato il secolo incarnando gli umori e le storie che dal mondo contadino si sono trasformate nella realtà di oggi ma reinventava di volta in volta uno stile, lanciava un genere, trasformava radicalmente e per sempre la cultura dei nostri giorni. Amava il sacro e il religioso, e contemporaneamente l’empio e il grottesco; la magia, l’ I–Ching, Jung, che aveva “saputo trovare un punto d’incontro tra scienza e magia, tra razionalità e fantasia”; il circo e i clown, Poe e Kafka, l’ altrove: il buffonesco nel tragico, e viceversa.
In ogni film Fellini cercava se stesso. Proiettava la propria genesi e crisi in 8 ½, (1963): lo sprofondamento nella morte, nell’eros e nell’infanzia: la Romagna dionisiaca della nonna, ruvida protettrice dei sogni; l’archetipo selvatico e mostruoso di Saraghina sulla riva del mare – rivelazione del tremendum del sesso, come Anita Ekberg lo è del numinoso. Anche il sogno déco di Giulietta degli spiriti (1965), ne era una variante in chiave femminile; mentre Tre passi nel delirio (1968) sperimentava in Poe il più moderno e funebre dei clowns.
Altro giro di boa con Block–notes di un regista (1969), dove Fellini si congedava dal Mastorna e dal suo brivido ultraterreno, preparando il Satyricon (1969), la più psichedelica delle visitazioni dell’antichità con il sentore del presente, e il trittico autobiografico (come lo definisce Gérald Morin) di Roma (1972), Amacord (1973), Il Casanova (1976). Con Roma e Rimini legate da un cordone ombelicale da recidere, un Rubicone da varcare: la Rimini delle origini, negli anni del fascismo, ricostruita non dai ricordi, ma dalla rimembranza di stampo platonico – pur nella dissacrazione, per evitare ogni poetica sentimentale –, Rimini e la dicotomia estate – inverno, il risibile orgoglio – nostalgia degli splendori romani, il rifugio nel cinema Fulgor, il sogno intorno alla vita dorata del Grand Hôtel, l’apparizione del Rex, la fuga dalla piccola grigia provincia invernale dei Vitelloni (che Sergio Zavoli avrebbe condiviso). Lì, il più visionario dei registi, è anche il più aderente alla verità, “per quanto grottesca sia la caricatura”. Come osserva Calvino: “Fellini mette sempre le divise giuste e il clima psicologico giusto degli anni che rappresenta”.

È Il Casanova, che affronta le ombre più profonde. Fellini vi dipinge un mirabile quadro della disfatta dell’Illuminismo alla vigilia della Rivoluzione. “Il ritratto psicologico dell’artista” che recita sempre una parte in preda alla vertigine del vuoto, si fonde con la mediocrità elevata ad eccellenza e con la compulsione sessuale del seduttore per antonomasia, perfino del vitellone attaccato ad un piacere adolescenziale: un edonismo da civiltà dei consumi. Allo specchio del personaggio, Fellini vede se stesso e l’italiano tipico. Ha paura del Pinocchio che non diventa mai uomo, del “baco da seta che si agita […] freneticamente nel suo bozzolo, e non diviene mai farfalla”. Teme la categoria rozza del fascista come essere collettivo soddisfatto di sé, che ha sperimentato nell’adolescenza: “l'approssimazione, l’indifferenziato, i luoghi comuni, il convenzionale, la facciata”. Tuttavia, l’ultimo grado di abiezione del vecchio Casanova deriso, con il sogno sul ghiaccio, attinge la profondità del pathos tragico. Simenon lo definì il più bell’affresco della storia del cinema, “una vera e propria psicanalisi dell’umanità […] un tuffo vertiginoso nelle profondità umane”.
Fellini ribatté: “Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo […]”.
Prova d’orchestra (1979), La città delle donne (1980), E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985), Intervista (1988) , La voce della luna (1990 ) gettarono uno sguardo terribilmente lucido sul mondo moderno, totalitarismi del Novecento, dittatura delle ideologie, degenerazioni dei governi, climax di ordine – disordine, violenza, caos, incubi apocalittici, sessualità grottesca, rimbecillimento, esibizionismo e voyeurismo istituzionalizzato, femminismo castratore, tecnica incontrollabile, anti edonismo camuffato, puerilità del pensiero pubblicitario che penetra ormai il pensiero tout court sulla sua fine, giovanilismo esasperato, omologazione e confusione generale. Anche per questo, gli ultimi film di Fellini “rappresentano il culmine dell’arte moderna”. Sebbene avesse perseguito l’arte del burattinaio, e plasmasse i suoi attori come il più suasivo e ferreo dei domatori, perché essi non dovevano mai essere psicologie, ma solo maschere, Fellini era attento come nessun altro alle persone. Possedeva quell’umanità profondissima, che era il tocco della grazia. Anche questo, oggi, è uno dei suoi più grandi doni.
Così, anche se La voce della luna si conclude con la voce sguaiata di Aldina, «Pubblicitàaaaa...aaa...aa...», le ultime parole sono del pazzo ragionevole, che chiede soltanto di ascoltare le voci che scendono dalla luna e salgono dai pozzi, di attenderle in silenzio. Forse solo in questa attesa dove il pazzo ragionevole continua a compiere le sue acrobazie di clown, in quei giochi lievi che Fellini ha prediletto, ci sarà la possibilità di capire qualcosa, o forse essi saranno la domanda elusa, l’unica risposta.

Perché si formi un grande artista, resterà sempre un mistero. Fellini nasce in una provincia dove il cinema si ammirava, ma non si praticava. Il padre è di Rimini, di origine contadina, ma Rimini è già capitale del turismo internazionale. La madre è di Roma, non solo caput mundi per l’impero vagheggiato dal regime, ma anche sede dello Stato della Chiesa, cui Rimini è appartenuta fino all’Unità d’Italia. Per di più, ora è la Mecca del cinema, l’arte nuovissima.
In questo luogo ibrido, Federico Fellini apprende l’ambivalenza. La frase pronunciata da Cesare mentre varcava il Rubicone, contro lo Stato romano – “Alea jacta est”, (Il dado è tratto) – sarebbe stato anche il suo proclama.
Quando lascia Rimini, sarà per andare alla conquista di una parte di se stesso che gli appartiene già, sebbene la profondità di Roma sia inconoscibile, perennemente esotica, falsamente familiare. Fellini è uno degli ultimi artisti rinascimentali che, come Michelangelo dalla minuscola Caprese, andavano a lavorare per i papi. Inoltre, per i romagnoli dello Stato pontificio – e anche dopo – era naturale avere un piede nella Curia: anzi, era proprio questo rapporto di sudditanza, ad alimentare conflitti, anarchie. Paradossalmente la crescita di Fellini avviene in un luogo dove ruoli paterni e materni sembrano rovesciati. Il suo mondo delle madri è quello dell’ava paterna, non materna: è la campagna ancestrale il cui nume è la nonna Franzcheina, totemica come Toro seduto, provvidente come l’ava di Giove. Con le centuriazioni calcolate dagli ingegneri, in corrispondenza alle misure astrali, i Romani avevano addomesticato le selve e il selvaggio: l’avevano relegato nelle siepi, a limite dei campi, o sulle rive del mare: lì regnava Diana, dea di fiere e confini, il cui carro lunare aleggia ancora sui bassorilievi levigati del Tempio malatestiano.
Fellini non rimuove nessuna delle figure arcaiche, quando le fa riemergere ora dalla campagna, ora dal mare. Come nell’ Odissea, nei campi di Amarcord appaiono – visione del vecchio perduto nella nebbia – i bianchi buoi dalle corna lunate, ai quali Tonino Guerra ha intonato l’elegia. La campagna d’inverno riprende un possesso ferino della città, quando la Rimini estiva si svuota. Soprattutto ne La mia Rimini (1967) la campagna magica di Gambettola, percorsa dagli zingari – rievocata nel Miracolo e nelle Notti di Cabiria con Zampanò – è il reame della nonna, arzdora onnipotente da cui tutti dipendono: signora di uomini, animali, e meteore, che prevede infallibile l’arrivo del garbino. In sovrintende l’operazione del nipotino Diòniso: la pigiatura dell’uva. Tutti i bambini sono nel mastello del vino, come il piccolo Bacco. La nonna monologa tra sé nella lingua della terra, il dialetto. È la lamentela della potenza degradata: quella di Era per l’infedeltà di Zeus. In queste case dagli alti muri bianchi, protegge il sonno, alimento dei sogni: “Durmì bèn, creaturéini”. Tornerà giovane, come la fata di Pinocchio, ne La voce della luna.
Questa campagna, che il mondo contemporaneo allontana, come il passato, ha la sua durata nel mondo ctonio, al quale Fellini è devoto. In comune col culto di Pascoli per la morte, con il nostro fondo celtico (la notte di Ognissanti – come in Shamain – i mondi si rovesciano, e comunicano), Fellini vi scopre “un mondo dove tutto è semplice, decoroso, facile e rassicurante. Il mondo dei morti”; il mondo magico che in lui è legato “a tutta l’ispirazione religiosa”.
A questa durata ctonia (e panica), che sostiene la ferinità addomesticata della campagna, corrisponde quella del mare.
"Ma è soprattutto il mare che d’inverno colpisce con fragore. Diventa straordinario, grigio, violento, una specie di brodo di alghe in perpetua ebollizione. Questo mare, lo sai, lo amo con passione! È commovente misterioso, è traditore e accogliente, non te ne puoi fidare un secondo, e tuttavia troppo spesso gli ci si affida ciecamente. È un mare–donna. Più forte degli uomini che lo solcano. Più forte della loro diffidenza. In tutti i miei film, il mare Adriatico è là, presente […]".

Sulla riva del mare avvengono le due rivelazioni dell’eros, l’una nel sogno, l’altra reale. Nella prima si manifesta la dea nella sua bellezza: Diana e Venere. Nell’altra la maga–strega. Entrambe nella vibrazione del tremendum.
Nella propria mito–biografia, che unisce strettamente Roma ad Amarcord, Fellini parte letteralmente dalle proprie pietre miliari (sebbene Amarcord non inizi con ricordi romani, ma solo con l’annuncio trascolorante della primavera: le manine). Roma si apre con il cippo della via Flaminia: le donne spingono la bicicletta nel viola dell’alba invernale; subito dopo, un allegro drappello di scolari varca il fiumiciattolo fatidico. Poi, ecco la piazza sotto la neve, con la statua di Giulio Cesare e i commenti irriverenti di Giudizio; tutti gli altri riferimenti alla città cui Rimini è legata dal cordone ombelicale: capitale dove fuggire, meta dei Vitelloni.
Fellini era figlio della struttura concettuale che aveva regolato un paesaggio cosmico: ne aveva fisse in sé le espressioni lapidarie. Da quell’ordine concettuale, linguistico, formale, aveva ricevuto l’imprinting nei sensi più estesi del termine: irreversibili. Anche per questo il rapporto tra ordine e caos, tra regola e trasgressione, era per lui così nutriente. L’idea sempre ribadita che l’artista deve trasgredire, e per poterlo fare non deve avere la libertà, ma figure autoritarie, cui ribellarsi, trovava un doppio conforto, paradossale. Una volta passato il Rubicone, non si torna indietro. Anche per questo, tornare a Rimini per lui era difficile.

Lo presero per provinciale. Orson Welles insistette:
"Fellini è essenzialmente un ragazzo di provincia che non è mai arrivato a Roma. La sta ancora sognando. E dovremmo essergli molto grati per quei sogni. […] La forza della Dolce vita proviene dalla sua innocenza provinciale. È così tutto completamente inventato […] È dotato come nessun altro che faccia film oggi. Il suo limite – che è anche la fonte del suo fascino – è che è fondamentalmente molto provinciale. I suoi film sono il sogno della grande città fatti da un ragazzo di provincia. La sua sofisticatezza funziona perché è la creazione di uno che non ce l’ha. Ma mostra pericolosi segni di essere un artista superlativo con poco da dire".
Fellini sul momento ci rimase male: “Ci riflettei un paio d’ore, poi conclusi: ha ragione e non è un’insolenza, l’adolescenza è indispensabile per un creativo”.
Poi Fellini nobilitò l’idea stessa del provinciale, stabilendo una gradazione di realtà e di categorie, dalle quali si poteva considerare l’arte, la meta così lontana, quasi irraggiungibile, al di sopra della natura delle cose. Ma la critica di Welles aveva avuto altri veleni, e da loro Fellini si difese con la massima consapevolezza.
Quando Rossellini disse che La dolce vita era il film di un provinciale, probabilmente non si rendeva bene conto di ciò che stava affermando. Dal mio punto di vista, infatti, chiamare un artista con l’appellativo di provinciale è la migliore definizione che se ne può dare. L’artista si deve porre di fronte alla realtà con quell’atteggiamento tra l’attrazione e il distacco tipici di un provinciale. Che cos’è un artista dopo tutto? Non è che un provinciale preso in mezzo tra la realtà fisica e quella metafisica. Di fronte alla realtà metafisica siamo tutti dei provinciali. Allora chi è un cittadino del mondo trascendente? I santi. Ma è la terra di nessuno che io chiamo provinciale, la frontiera tra il mondo dei sensi e il mondo sovrasensibile, quello è davvero il regno dell’artista.

Erano le parole della mente meno provinciale del mondo: quella di Michelangelo con il faticoso pennello sulla volta della Sistina; quella di Kafka con la mente dello “straniero”.

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