Rivista "IBC" XXVII, 2019, 4

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Recensione a "Storia sociale della bicicletta"di Stefano Pivato.
La storia siamo noi, e pedalare!

Vittorio Ferorelli
[IBC]

Guardando attraverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia, diceva il giornalista Gianni Brera; e Stefano Pivato, storico dell’età contemporanea in forza all’Università di Urbino, lo ha preso davvero in parola. Nella sua Storia sociale della bicicletta, pubblicata dal Mulino, sono agilmente condensate le vicende di ben 150 anni: dalla prima semileggendaria apparizione di un “velocipede” su e giù per i viali alberati di Alessandria (era il 1867), fino alle manifestazioni dei pedalatori lenti che oggi protestano contro l’inquinamento del pianeta, bloccando il traffico delle nostre città con lo scampanellìo della loro “massa critica”.
La “nuova amica che ci dà le ali per sollevarci al di sopra delle meschinità del mondo”, com’ebbe a definirla Maurice Leblanc nel pieno della Belle Époque, portò anche in Italia il vento della modernità novecentesca, diventando l’oggetto del contendere tra passatisti e innovatori, ciclofobi e ciclofili, come se lo stato di quiete imposto dai guardiani della tradizione potesse essere messo in pericolo dall’innocente rotazione di due pedali trasmessa per via meccanica ad altrettante ruote. E un pericolo serio in effetti incombeva, come accade ogni volta che un’invenzione rivela all’umanità la sua innata libertà di movimento: e se poi dalla gioia di pedalare si passa a quella di pensarla come si vuole?
Forse oggi non lo ricordiamo più ma c’è stato un tempo in cui la Chiesa condannava il “velocipedista” come “un che di ermafrodito, di indefinibile, di inclassificabile” e il “velocipedismo” come una “completa anarchia”, e alle donne era proibito pedalare per motivi morali: come minimo c’era il rischio che provassero piacere sedendo sul sellino, come massimo avrebbero perso la verginità. L’uso della bicicletta era interdetto pure ai preti e agli ufficiali militari, perché “scomponeva” la veste talare degli uni e l’uniforme di ordinanza degli altri, esponendoli al pubblico ludibrio.
Del resto, ed era appena iniziato il secolo breve, anche un uomo di scienza come Cesare Lombroso metteva in relazione diretta l’incremento della delinquenza con la diffusione delle due ruote, e persino i giovani mazziniani, socialisti e anarchici, urlavano la loro protesta contro la prima corsa a tappe nazionale: “Mentre il popolo tutto scioccamente accorre, con morbosa dilettazione, ad applaudire al miserevole spettacolo d’incoscienza e di sperpero d’energie che offrono tutti quei giovani ciclisti del Giro d’Italia, noi additiamo alla cittadinanza tutta tale forma di sport, come uno de’ tanti tranelli che l’attuale sistema di governo plutocratico e borghese ha teso all’inconsapevole dabbenaggine delle moltitudini”.
Una volta attenuatesi queste resistenze multilaterali ‒ racconta Pivato ‒ il mezzo a pedali diventa il protagonista pacifico delle trasformazioni sociali, economiche e culturali del nostro paese, fino a diventare uno dei simboli della rinascita seguita alla Seconda guerra mondiale, quando possedere uno di questi mezzi o perderlo a causa di un furto poteva segnare il confine tra la speranza di un futuro migliore e la certezza di una vita grama (per rendersene conto si riveda Ladri di biciclette, il film ‒ capolavoro di Vittorio De Sica).
“Quando da noi non si può (più) andare in bicicletta vuol dire che è finita” spiegava con concisione tutta padana Cesare Zavattini, a margine delle fotografie realizzate da Gianni Berengo Gardin per Un paese vent’anni dopo, e dalle pagine di quel libro spunta anche l’immagine di lui che pedala imperterrito tra le vie di Luzzara, come a dire: “Io ci sono ancora!”. Continua a esserci anche lei, la “bici”, nonostante tutta la tecnologia che nel frattempo si è accumulata, quasi fosse un monito a mantenere i piedi per terra. La chiamiamo city bike, la condividiamo con degli sconosciuti tramite il bike sharing, la ricarichiamo alla presa di corrente come fosse uno smartphone, ma nella sostanza resta ciò che è sempre stata nella definizione aurea di Ivan Illich: il modo migliore di creare “un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l’equilibrio ereditario”. 

Riferimenti bibliografici:

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Bologna, il Mulino, 2019.

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