Rivista "IBC" XII, 2004, 1

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, progetti e realizzazioni, leggi e politiche, pubblicazioni

In occasione del trentennale dell'IBC la responsabile del Servizio beni architettonici e ambientali propone una ricostruzione storica dell'esperienza realizzata in questo ambito dall'Istituto.
Trenta anni dalla parte del territorio / 1 Dalla fine degli anni Sessanta ai Novanta

Marina Foschi
[IBC]

La seconda puntata di questo articolo sarà pubblicata nel prossimo numero. Un intervento dell'autrice sullo stesso tema sarà pubblicato nel volume Repertorio di idee e di esperienze per un approccio storico-ambientale integrato nella pianificazione urbana e nella informazione ai cittadini (Franco Angeli editore, curatore scientifico Vanni Bulgarelli). Il volume è curato dal Comune di Modena, nell'ambito del progetto "Le città sostenibili. Storia, natura, ambiente. Un percorso di ricerca", ideato e promosso dall'Ufficio ricerche e documentazione sulla storia urbana dell'Assessorato alla cultura. Al progetto (per maggiori dettagli: www.cittasostenibile.it) partecipa anche l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, che garantisce l'apporto scientifico delle ricerche e dei progetti curati dal suo Servizio per i beni architettonici e ambientali, e insieme all'Agenzia regionale prevenzione e ambiente (ARPA) assicura il raccordo con i programmi e le azioni regionali.

 

Le trasformazioni del territorio negli ultimi trent'anni sono state determinate da fattori mutevoli e complessi, nei quali difficilmente si riscontrano oggi regole o tendenze per programmare a lungo termine lo sviluppo delle città, le loro stesse funzioni. I luoghi ove si è accumulata esperienza condivisa, creati dalla collettività per funzioni comuni, perdono il senso della socialità. Le vecchie piazze, i punti di ritrovo tradizionali difficilmente sono occasione di incontri e scambi di informazioni e opinioni. Le nuove piazze sono forse i centri commerciali, ma raramente il pensiero va al di là degli acquisti e tocca il senso della comunità. Ciascuno tende anzi a isolarsi con una rappresentazione della realtà - la televisione, il computer ("personal" per definizione), il cellulare - illudendosi di essere partecipe del mondo intero. Anche le abitazioni si frantumano in piccole taglie, per i costi eccessivi o per la divisione dei nuclei familiari.

La perdita di dialogo, l'assunzione di concetti confezionati, offuscano il senso critico: la discussione, quando avviene, è retorica o esaspera passioni represse. È facile, così, assorbire i messaggi di persuasori professionisti: sono gli acquisti a rivelare e condizionare le personalità, addirittura a creare benemerenze per aver dato impulso all'economia, salvo cascare nei capitomboli provocati da meccanismi perversi. Ma in un panorama di comunicazione orientata e condizionata si distingue una spontanea, comune volontà di salvaguardare la salute del pianeta da parte delle generazioni che debbono credere nel futuro e che hanno superato un'infanzia allevata dalla televisione e un'adolescenza trascorsa fra telefoni e spot.

Il problema è orientarsi nella distanza aperta in cinquant'anni fra evoluzione tecnologica e ritmi biologici, ove all'approfondimento delle conoscenze scientifiche fa riscontro la difficoltà di percepire la realtà visibile, alle notizie dal mondo in tempo reale corrisponde la perdita di identità in un contesto vissuto. Abituati a una realtà virtuale, stentiamo a riconoscere gli stessi cicli naturali di crescita di piante e animali. La riconoscibilità dei luoghi ove svolgiamo le nostre azioni, l'identità nostra e delle persone che frequentiamo, sono invece una condizione essenziale per effettuare scelte e sostenerle. Le nuove tecnologie che offrono possibilità di controllo, verifica e confronto delle informazioni finora impensabili possono essere indirizzate a recuperare le conoscenze stratificate nel territorio, le ragioni che sono alla base di decisioni passate e future.

L'Istituto per i beni culturali dell'Emilia-Romagna (IBC) è nato nel 1974, prima ancora del Ministero voluto da Spadolini, come supporto alla programmazione della Regione e degli enti locali nel momento in cui una politica dei beni culturali sembrò lo strumento per governare con il consenso dei cittadini le trasformazioni del territorio regionale. Il concetto di "bene culturale", coniato dalla Commissione "Franceschini" nel 1964, all'inizio degli anni Settanta venne ripreso con il decentramento regionale per esaltare il valore collettivo delle radici profonde delle culture locali, fatte di aspetti eterogenei da mettere a confronto con criteri non selettivi. Vennero così prodotte e sperimentate metodologie di studio delle componenti naturali e antropiche che in periodi diversi avevano conformato porzioni di territorio conferendo precise identità.

 

Le esperienze precedenti alla costituzione dell'IBC

Prima ancora dei "decreti delegati", alla fine degli anni Sessanta, il senso di una cultura diffusa - in parte, ancora per poco, orale e manuale, tangibile negli oggetti d'uso e nelle lavorazioni, nelle città e nelle campagne in via di omologazione, legata ai caratteri del suolo e del paesaggio, come, per altro verso, alla più alta produzione artistica - venne sapientemente messo a fuoco in quattro successive campagne di rilevamento, condotte a cadenza annuale, fra il 1968 e il 1971, usando come campione di studio la montagna bolognese.

Fu scelto un territorio "conservativo" di testimonianze materiali e, ancora, di modi di vita corrispondenti a precise esigenze, per tradizione "libero" e consapevole negli usi privati e collettivi, laboratorio sperimentale della nuova configurazione amministrativa da parte della Provincia e del Comune capoluogo e di una Soprintendenza alle "Gallerie" guidata da Cesare Gnudi e da Andrea Emiliani, particolarmente sensibili alle connessioni fra territorio e cultura. Fu coniato il termine di "aree culturali omogenee" e puntualmente verificato utilizzando più parametri, ciascuno affidato a referenti di fama nazionale.

Il metodo - irripetibile per il lievitare dei costi di trasferimento e di stampa, il peggioramento dei livelli di sicurezza e l'inasprirsi delle relative norme, ma soprattutto per il venir meno di personalità capaci di fondare scienze nuove o nuovi approcci conoscitivi con l'entusiasmo di chi è partecipe di una trasformazione in atto - era studiato con precisione di campagna napoleonica, pur nella forma di conversazione odeporica.

Le campagne di rilevamento erano precedute dalle ricognizioni fotografiche di Paolo Monti, dalle schede e dai saggi compilati dai soprintendenti dei diversi settori e dall'Università, da un accordo con gli amministratori locali che prevedeva momenti di dibattito assembleare, anche animati, alternati ad approfondimenti locali, un programma di visite mirate al patrimonio artistico e naturale, archeologico e dei centri storici, ma soprattutto al tessuto connettivo di questo patrimonio: al paesaggio nella sua conformazione naturale e storica. In due giorni - con il sussidio di un quaderno (puntualmente pubblicato) contenente ogni dato, foto e spazio per appunti, con un pullman e auto d'appoggio - veniva seguito un percorso sapientemente studiato per offrire agli studiosi partecipanti, e alla popolazione incontrata nei luoghi aperti al pubblico, argomenti di discussione sugli oggetti più disparati da tutelare, sui criteri e le motivazioni, sulle connessioni fra spazi, oggetti, argomenti diversi: il perché dell'infittirsi degli insediamenti sui crinali o nei fondivalle, la qualità delle arenarie e il lavoro secolare di maestranze specializzate nel loro uso, i fienili dipinti da Morandi o le pale delle chiese con i paesaggi sullo sfondo, l'articolazione dei dialetti e i lessici dei mestieri, il lavoro delle campagne, le forme delle abitazioni e degli annessi, la regimazione idraulica, i centri e i nuclei storicamente consolidati o accresciuti entro regole stringenti date dalla morfologia del suolo, dalle opportunità di collegamento, dalle esigenze di servizi o di funzioni comuni.

La partecipazione allora prevedeva anche scontri clamorosi. La tutela dei centri storici era appena avviata dopo la corsa alla ricostruzione postbellica e la sensibilità per la conservazione del patrimonio appariva esercizio elitario. Eppure gli interlocutori erano coinvolti, conoscevano i mestieri e la fatica di produrre ciò che quotidianamente usavano con noncuranza. Nell'impellente sviluppo la tutela del passato era vista sì con fastidio, ma con maggiore consapevolezza e con innato senso civico. Oggi tutti concordano sul valore del patrimonio culturale, ma mentre gli enti pubblici si contendono le competenze, la privatizzazione minacciata per lo stesso demanio ne annulla la funzione collettiva prevista dalla Costituzione.

L'esperienza bolognese di Guido Fanti e Pierluigi Cervellati filtrava nel territorio regionale, sapientemente analizzato nella storia del suo paesaggio da Lucio Gambi. Con la regia di Andrea Emiliani questa esperienza fu consegnata alla nascente Regione, come il primo tassello di un Istituto che avrebbe dovuto creare le conoscenze e i collegamenti per una tutela calibrata a tutto campo, ancorata alla pianificazione territoriale e alle politiche di sviluppo.

Dal canto suo la pianificazione territoriale metteva a punto negli stessi anni strategie e metodi utili sia per la conoscenza sistematica delle componenti fisiche, sia per una programmazione delle risorse mirata a soddisfare le esigenze locali. Anche se la fugace intuizione dei comprensori come "unità minima di programmazione" nell'originario indirizzo di partecipazione potrebbe apparire ad alcuni come un eccesso di democrazia sessantottina, sotto il profilo metodologico essa produsse la base di lavoro codificata nelle successive normative urbanistiche.

Il legame fra ambiti comprensoriali e aree culturali omogenee fu subito evidente e la metodologia messa a punto da Osvaldo Piacentini per individuare le "vocazioni" territoriali nella pianificazione comprensoriale fu il punto di partenza per sperimentare una precoce carta del rischio del patrimonio culturale disseminato nel territorio. Applicazione e verifica del metodo presupponevano l'acquisizione di una base conoscitiva diretta di quanto non era ricavabile dalle fonti. La schedatura del patrimonio era agli esordi anche per quello di riconosciuto valore monumentale e artistico, assente per il patrimonio sparso, diffuso, abbandonato, più a rischio per mancanza di interesse e di riconoscimento dei valori relazionali insiti negli insediamenti rurali come nei centri storici.

Un primo effetto delle campagne di rilevamento era stato, tra il 1970 e il '72, l'impegno di alcune Province a effettuare ricognizioni speditive con l'obiettivo di individuare i caratteri peculiari degli insediamenti storici, a partire dalla montagna, con particolare riferimento agli ambiti culturali e al contesto ambientale. Oltre alla Provincia di Bologna furono subito sensibili a un approccio conoscitivo plurisettoriale quelle di Modena e di Forlì, allora comprendente anche il Riminese. Furono anche condotte da Paolo Monti campagne fotografiche mirate a sviluppare una maggiore sensibilità verso paesaggi e oggetti consueti e troppo spesso ignorati, a ricucire relazioni fra il terreno e l'opera dell'uomo. Analogo sforzo descrittivo e intellettivo per riconnettere tessuti separati per incomprensione fu compiuto in numerosi centri storici dopo Bologna: a rivederle oggi queste rilevazioni fotografiche sembrano altrettanti film muti (ancora più silenziosi per la mancanza degli abitanti) ma estremamente eloquenti sui processi di degrado come sulla vitalità di tradizioni e consuetudini, con indicazioni progettuali sicure.

Nel 1972 con la pubblicazione di Territorio e conservazione, presentato da Lucio Gambi, veniva dato conto delle esperienze raggiunte nel momento della delega alle Regioni delle funzioni urbanistiche e di salvaguardia del patrimonio culturale nella pianificazione territoriale. Da subito venne creato un Ufficio regionale per i beni culturali, di supporto alla programmazione e all'urbanistica, con personale esperto in architettura, ecologia, geologia, ritenute discipline convergenti nell'attuazione di una politica regionale di "tutela e uso del territorio". Questo Ufficio prese parte anche alla prima programmazione regionale del 1973 per gli indirizzi di salvaguardia nella pianificazione. Da questo nucleo si svilupparono corsi per il personale destinato al futuro Istituto per il censimento dei beni nel territorio (fotografi, rilevatori, archeologi). Nel 1973 furono così prodotte quali esempi di metodo le prime Carte dell'insediamento storico, in convenzione con il Dipartimento di Archeologia diretto da Achille Mansuelli, che valsero, nel 1977, l'invito di Raymond Chevalier per la presentazione a Parigi nell'ambito del primo convegno "Pour une Archéologie du paysage".

Si trattava della prima applicazione pragmatica delle intuizioni emerse dai dibattiti delle campagne di rilevamento: un'ipotesi ambiziosa di realizzazione a tappeto sul territorio regionale e la complementarietà dei criteri d'indagine avevano portato a usare la medesima base cartografica utilizzata per la metodologia comprensoriale, le tavolette IGM 1:25.000 dell'Istituto geografico militare, non esistendo ancora la Carta tecnica regionale. La scelta di campioni densi di stratificazioni insediative dall'archeologia ai giorni nostri e rappresentativi di aree diverse portò agli esempi contenenti Marzabotto (Bologna), Veleia (Piacenza) e Sarsina (Forlì-Cesena), ciascuno poi significativo di modi differenti di occupazione e uso del suolo.

Alcuni criteri apparvero però subito comuni alle diverse zone appenniniche: il condizionamento dato dall'esposizione, dall'acclività e dalla stabilità dei versanti; lo stretto rapporto fra classi litologiche e tipi di vegetazione, fra ricchezza produttiva e qualità insediativa; la presenza di acqua in precise falde strette fra arenarie e argille; le peculiarità dei diversi materiali e tipi costruttivi edilizi: il mondo della pietra e quello del mattone, il persistere di forme e tecnologie nel passaggio dal legno a questi ultimi materiali.

Entro questi caratteri ambientali persistenti in ambiti circoscritti erano poi calati elementi conoscitivi desunti dalle fonti storiche (estimi e stati d'anime di Popoli e Comunità, fonti cartografiche e iconografiche, esigenze e legami rispondenti all'evolversi delle forme di potere, che portavano a preferire ad esempio collegamenti e rapporti lungo i crinali o nei fondivalle). Carattere a lungo identificativo di aree culturali omogenee fu riscontrato nella partizione parrocchiale, ricalcante le antiche comunità rurali, soprattutto nei territori sottoposti al potere pontificio. Entro questi ambiti si possono agevolmente riconoscere funzioni amministrative, difensive, religiose e commerciali diffuse e collocate secondo rapporti stringenti, dal medioevo al secolo scorso.

Le "vocazionalità" teoriche venivano poi confrontate con il rilevamento dei beni culturali nell'accezione più vasta possibile (dai centri abitati alle case rurali, dalla viabilità all'organizzazione poderale, dall'archeologia alla stratificazione dei suoli; furono anche prodotti abachi e dizionari, tavole sinottiche e cronologiche per beni considerati "minori", non ancora riconosciuti dai criteri schedografici in uso per il patrimonio artistico). I riscontri facevano emergere convergenze, ma anche problematicità. I siti archeologici, in particolare, contraddicevano in alcuni casi gli assunti delle condizioni insediative favorevoli. Gli approfondimenti dibattuti fra archeologi e geologi spiegarono così, ad esempio, la trasformazione del paesaggio veleiate, che aveva requisiti ottimali in periodo romano e in seguito caratterizzato da instabilità, o di quello sarsinate, sconvolto da terremoti e alluvioni nella tarda antichità.

Sul medesimo tipo di considerazioni e sull'assunto di una ricerca costante dei nessi fra forma e funzione fu impostata, esattamente trent'anni fa, la prima legge regionale sui centri storici, poi ripresa da altre Regioni quali Toscana e Piemonte. La definizione di "centro storico" data dalla Commissione della quale facevano parte Lucio Gambi, Andrea Emiliani e Pierluigi Cervellati (di lì a poco nominati primi presidente e vicepresidente dell'IBC) recitava così: "insediamento accentrato che in una determinata fase storica avesse esercitato una funzione egemone sul territorio circostante per quanto piccolo e che di quella fase conservasse testimonianze tangibili". Evidente la volontà di non escludere da una ricognizione approfondita i centri minori, il loro tessuto edilizio, una analisi funzionale che enucleasse ruoli consolidati e accrescimenti conseguenti, prima matrice, insieme con la morfologia del suolo, della forma urbis; non la tutela dei soli monumenti selezionati, ma della consapevolezza dei valori d'insieme, prima ancora che dei manufatti.

 

La prima fase di attività dell'IBC: ricerche e metodi

Dal 1974 per oltre dieci anni l'Istituto è stato impegnato nella raccolta sistematica dei materiali di documentazione del territorio regionale, nella compilazione dell'inventario dei centri storici, negli indirizzi e nella selezione degli studi e dei progetti di restauro architettonico secondo i criteri indicati dalla legge sui centri storici, nelle ricognizioni sul patrimonio architettonico e naturale, in interventi di restauro, sicurezza e riqualificazione nei musei, nelle biblioteche e negli archivi, in collaborazione con la Giunta regionale.

È utile rileggere alcuni tratti dell'inserto speciale pubblicato nel n. 5 del 1975 di "Bologna Incontri" in occasione dell'insediamento ufficiale degli Organi nominati dalla Regione, per la completa assunzione delle funzioni dell'Istituto. È tangibile la consapevolezza del momento politico, con il richiamo alle leggi coordinate: la n. 4 del 1973 istitutiva dei corsi di qualificazione e riqualificazione di museologi, bibliotecari e addetti alle attività conoscitive e conservative che "si ripromettono di fornire agli enti locali e a tutte le altre destinazioni consuete, operatori artistici e culturali effettivamente addestrati alla realtà operativa"; la già citata n. 2 del 1974 per i centri storici; la n. 24 del 1975 sulla cartografia, "frutto della proposta di riprendere, allargare e approfondire ogni lavoro inerente la formalizzazione cartografica della facies regionale: lavoro che l'Istituto potrà ospitare non soltanto per fornire collaborazione a tutte le iniziative cartografiche di livello culturale o artistico oppure ancora naturale, ma per profittare dell'attività cartografica stessa in senso didattico e conoscitivo".

 

Si è voluto affermare come l'organizzazione tradizionale della cultura istituzionalizzata, per intendersi, dei musei e delle biblioteche, non potesse più a lungo restare separata da altre attività che vi si connettono, sia da un punto di vista sociale e politico, sia da un punto di vista scientifico-amministrativo. Non si vede infatti come la salvaguardia del singolo oggetto possa essere slegata dallo studio del suo contesto culturale e territoriale né come i beni naturali possano essere studiati fuori dalle loro sedimentate e capillari stratificazioni. E si è altresì ritenuto di dover precisare come l'impresa di catalogazione dei beni artistici, culturali e naturali, che l'Istituto definirà in termini corretti di metodologie unificanti, vada subordinata a una politica di piano che ravvisi nell'inventariazione generale la fonte primaria di materiali informativi, a livello di elaborazione scientifica anche la più raffinata, e che consenta di porre propriamente e avviare i problemi dello sviluppo sociale economico e culturale della regione [...].

[...] l'Istituto che la Regione presenta [nel 1975] assume a compito specifico della propria attività l'esame minuzioso e dettagliato della condizione storico-culturale e socio-economica del territorio, puntando cioè - attraverso l'adozione di tutte le moderne metodologie - a una conoscenza "globale" del territorio stesso in tutta la gigantesca vastità del sistema spazio-temporale.

Proprio perciò l'Istituto seguirà metodi largamente interdisciplinari, gli unici che consentano l'esatta, costante interazione nel complesso processo conoscitivo della realtà, gli unici che rendano valida l'azione didattica che al censimento deve intendersi ovviamente legata; gli unici, infine, che possano facilitare fin dal suo primo attuarsi sperimentale il momento della conoscenza analitica dell'inventario verso una tensione progettuale, e cioè dall'inventario alla politica di piano.

[...] L'Istituto infatti non vuole costituirsi come uno strumento di propulsione scientifica, e tuttavia squisitamente isolato, ma gettare invece le sue più profonde radici nella realtà culturale e politica delle comunità locali, esprimere a livello di ricerca le scelte culturali e politiche, servirne le necessità reali.1

 

Questa lucida utopia, perseguita per una decina di anni, ha prodotto ricerche esemplari a livello locale, regionale ed europeo: dalle ricerche provinciali sul patrimonio architettonico sparso, a quelle regionali sul patrimonio delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), sul demanio forestale, sulle colonie marine, sulla compatibilità d'uso sociale e culturale dei contenitori pubblici nei centri storici, sui mestieri del restauro e l'artigianato artistico, sul recupero del patrimonio edilizio in zona sismica, tutte condotte con un approccio interdisciplinare e in funzione dell'attività di governo regionale, fino al convegno internazionale di studi su "La salvaguardia delle città storiche in Europa e nell'area mediterranea" nel novembre 1983, patrocinato dal Parlamento europeo. In quell'occasione l'attività svolta per i centri storici, la documentazione iconografica raccolta e studiata, le analisi sulle trasformazioni territoriali, furono presentate nella mostra "I confini perduti" e valsero all'Istituto la proposta del Consiglio d'Europa per un Osservatorio europeo dei centri storici insieme con l'Università di Lovanio.

Nacquero invece nuove società per gestire con maggiore libertà grandi progetti, delle quali sopravvissero solo quella formata per il catalogo del patrimonio (il Centro regionale per la catalogazione, CRC) e quella per la promozione e la gestione delle grandi mostre (l'Agenzia di iniziative culturali dell'Emilia-Romagna, AICER), ma dal 1986 non vennero più finanziati programmi di ricerca nel bilancio ordinario.

 

La tavoletta di Borgo Panigale e il Piano territoriale paesistico regionale

La mole di lavoro accumulata dall'IBC non andò tuttavia dispersa e trovò applicazione grazie alla piena adesione dell'Emilia-Romagna, voluta dall'assessore Felicia Bottino, alla legge 8 agosto 1985 n. 431 (la legge "Galasso"), che imponeva alle Regioni la realizzazione del Piano territoriale paesistico regionale (PTPR).

In questa occasione, oltre a fornire l'inventario ragionato dei centri storici, la ricerca sulle colonie marine, le elaborazioni relative alle aree centuriate e a quelle sottoposte a vincolo di bellezze naturali, l'Istituto mise a punto un approfondimento metodologico sulla diversificazione dei criteri di tutela per fenomeni che si intrecciano sul territorio: per gli elementi di identità stratificati e mutati che tuttora motivano le forme del paesaggio. Una sorta di trasposizione e verifica di quanto con maggiore evidenza rilevato nei territori montani, meno sottoposti a carico urbanistico, applicata in aree di pianura sconvolte a più riprese da trasformazioni naturali e antropiche e, in tempi recenti, rese indifferenziate dalla cementificazione uniforme.

Borgo Panigale, periferia bolognese verso Modena, rappresentava un campione ideale per tentare il riconoscimento delle stratificazioni insediative fin da prima della via Emilia. La località, oggi unita senza soluzione alla città, dà anche il nome alla tavoletta IGM omogenea con quelle utilizzate per le carte dell'insediamento storico nell'Appennino e, come quelle, fa parte di un progetto teso a ricoprire uniformemente il territorio.

L'esperienza, pubblicata negli allegati al Piano approvato nel 1993, è anche quella che più si avvicina agli obiettivi e ai metodi scelti recentemente da Modena per il progetto delle "Città sostenibili". La differenza sostanziale consiste nei mezzi, nell'evoluzione tecnologica e, soprattutto, nell'effettiva attuazione modenese di un lavoro interdisciplinare, dove, alle intuizioni e alle supposizioni per quanto ritenuto essenziale, ma non supportato da puntuali verifiche per le diverse discipline, si sostituiscono collaborazioni scientifiche, confronti e supporti conoscitivi di sicura autorevolezza.

La tavoletta 1:25.000 è divisa trasversalmente dal fascio di infrastrutture che si sono sommate alla via Emilia, lasciando a sud la zona collinare e a nord una pianura tormentata dai corsi del Reno e del Lavino, dalle escavazioni limitrofe, dall'aeroporto e dalla progressiva urbanizzazione. Eppure l'approccio studiato in funzione del PTPR, per una verifica puntuale e in risposta a numerose osservazioni mosse al piano sulla scelta delle aree da salvaguardare, consente di ritrovare con sufficiente precisione le tracce superstiti di manufatti, colture e risorse naturali fra loro interrelati.

Il lavoro prevedeva l'uso delle carte tematiche realizzate prevalentemente sulla medesima base delle tavolette IGM dall'Ufficio cartografico regionale e delle fonti bibliografiche, cartografiche, iconografiche e fotografiche raccolte e archiviate dall'IBC. La scelta dei parametri è stata piuttosto casuale, dettata dalla disponibilità dei materiali, in ogni modo raccolti ed elaborati nell'ambito di una metodologia collaudata: da un lato operando scarti per le porzioni di territorio meno ospitali, dall'altro confrontando presenze documentate in periodi diversi. Le sovrapposizioni sono state del tutto manuali, ma elaborate in vista di una traduzione più puntuale, anche ai fini dell'informatizzazione, sulla Carta tecnica regionale.

Morfologia e qualità podologiche dei suoli mettono subito in evidenza in pianura ancor più che in montagna le zone di maggiore interesse insediativo: le dorsali più salubri, i terreni più fertili e produttivi. Il riscontro della carta archeologica è immediato: sia per i ritrovamenti più antichi concentrati nei terreni migliori, ma anche nel substrato profondo portato alla luce nelle cave di ghiaia, sia una maglia di tracciati ortogonali meno appariscenti quanto a reperti, lasciati nel corso dei secoli dalla bonifica del territorio a partire dal periodo romano. Per evidenziarli è stato usato l'IGM di primo impianto (1884) che rileva con chiarezza strade, cavedagne, fossi e scoli orientati sugli assi ancora riconoscibili lasciati dalla centuriazione. Addirittura alcuni allineamenti, dei quali si è persa l'evidenza, hanno segnato nei secoli i confini fra diverse comunità assumendo una precisa identità sul territorio, della quale tenere conto nella pianificazione urbanistica.

La carta dell'uso del suolo (dai rilievi degli anni Settanta) è stata poi confrontata a ritroso con lo stesso IGM di primo impianto e con le topografie ricavate dai rilievi catastali, a partire dal Catasto Buoncompagni (1781-1790) per determinarne l'evoluzione, con riferimento specifico ai caratteri emergenti del paesaggio dati dall'idrografia anche minore, dalle zone umide, dai prati pascoli, dagli opifici idraulici e dalla relativa toponomastica, costituenti una griglia di possibile tutela preventiva rispetto a interventi che possono modificare negativamente l'antico sistema scolante, soprattutto con l'estensione delle opere di urbanizzazione. Dalle stesse fonti cartografiche storiche sono stati estrapolati insediamenti e viabilità suddivisi per epoca di presenza, mettendo in evidenza gli assi consolidati fino al Settecento, la disseminazione ottocentesca e le fasi di conurbazione nella prima e nella seconda metà del Novecento.

L'eloquenza dei tracciati cartografici sottolinea la progressiva perdita di identità delle località assorbite nella crescita urbana, traccia utile per una previsione d'insieme di possibili ricuciture. Tale semplice evidenza offerta da fonti sistematiche fa emergere per contrasto la discontinuità delle pur meritorie ricognizioni sul patrimonio culturale: tanto dei beni di particolare pregio citati in guide e pubblicazioni, quanto dei vincoli ministeriali, estremamente limitati e di quelli comunali (di Piano regolatore) applicati con criteri disomogenei da un comune all'altro. Viceversa appare guida sicura all'organizzazione storica del territorio la ricostruzione dei confini amministrativi subcomunali e delle loro variazioni, appoggiati o meno a segni ancora riconoscibili sul terreno. Riferimento per uno studio rinnovato su aree culturali omogenee imperniate su funzioni storiche tradizionali, costituiscono in ogni caso gli ambiti entro i quali è stata costantemente raccolta la documentazione archivistica locale (dai catasti ai dati sulla popolazione).

La sintesi di questo lavoro è contenuta in due distinti elaborati cartografici: uno, definito "dei segni territoriali", identifica una tutela di tracciati, non necessariamente riconoscibili fisicamente, ma come percorsi della memoria da valorizzare; l'altro, "delle aree storiche e ambientali", prevede invece azioni conservative intrinseche alla natura dei beni: dal rispetto archeologico o del paesaggio agrario, ai manufatti isolati o annucleati dei quali salvaguardare la fisionomia e il significato del ruolo e conservare un collegamento anche ideale al contesto.

Assoluta innovazione del Piano paesistico regionale sono state le "unità di paesaggio". Valutate in 23 diverse macroaree in base al substrato geomorfologico e ai caratteri delle strutture portanti del paesaggio, esse interagiscono in modo significativo con gli elementi antropici e in particolare con le forme e i modi insediativi delle case rurali e del paesaggio agrario. Al punto che il disegno delle 23 unità presenta caratteri di analogia con la partizione delle forme funzionali delle dimore rurali in Emilia e Romagna operata da Lucio Gambi nel 1977. Ma lo spessore storico indagato da Gambi, che conferma per l'area appenninica una maturazione di tali forme negli ultimi secoli del medioevo e una persistenza successiva con una sostanziale indifferenza rispetto alle unità geomorfologiche, invita ad approfondire l'evoluzione nel tempo dei tipi edilizi come del paesaggio e a considerare una più puntuale localizzazione dei fenomeni. Ciò vale a maggior ragione per la pianura ove più radicali sono state le trasformazioni e più profondi gli strati antropizzati. Questa considerazione si riallaccia a quella iniziale delle "aree culturali omogenee". Tanto nelle grandi campiture a carattere regionale, quanto negli approfondimenti mirati, il metodo di interazione fra fonti scritte e materiali e di aperto confronto fra discipline (non necessariamente "esaustive") suggerisce spiegazioni e induce una progettualità più consapevole, in linea con l'obiettivo messo in campo dalle unità di paesaggio.

Con l'approvazione del Piano paesistico fu affidata all'IBC la progettazione di un sistema integrato di gestione che prevedesse l'uso di tecnologie avanzate: il progetto "PAESER" per la gestione informatizzata del PTPR. Furono anche affrontati modelli esemplificativi per alcune tipologie di beni confrontando fonti, recapiti e connessioni fra le relative banche dati, furono svolti incontri con le autonomie locali e gli organi della tutela statale in previsione di accordi gestionali, ma la mancanza di risorse non consentì di sperimentare l'applicazione del metodo. Successivamente la delega alle Province di competenze urbanistiche e il riconoscimento da parte dello Stato della valenza di tutela ambientale al Piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) confortarono lo sviluppo in quelle sedi dei metodi di gestione della pianificazione nel coordinamento fra tutela e sviluppo.

 

[Continua nel prossimo numero]

 

Nota

(1) L'Istituto dei beni artistici culturali e naturali, in La Regione Emilia-Romagna per una politica dei beni culturali, a cura di F. Cantelli, A. Emiliani, G. Guglielmi, supplemento di "Bologna Incontri", VI, 1975, 5, pp. 2-3.

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