Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

musei e beni culturali / immagini, mostre e rassegne

Cento anni di sofferenze e segregazioni in una lunga rassegna di immagini. Reggio Emilia e Correggio mettono in scena i volti della follia.
Il posto delle fragole

Isabella Fabbri
[IBC]

"Non è imprigionando il tuo vicino che ti convinci della tua sanità mentale": è una frase di Dostoevskij a fare da viatico all'inizio de "Il volto della follia. Cent'anni di immagini del dolore", la mostra curata da Sandro Parmigiani che, negli spazi di Palazzo Magnani a Reggio Emilia, ripercorre l'ormai più che secolare rapporto tra fotografia e malattia mentale. Una mostra (con una sezione decentrata al Palazzo dei Principi di Correggio) bella e utile perché dalla seconda metà dell'Ottocento a oggi molto si è dibattuto e civilmente combattuto intorno allo statuto della follia e della sua oggettivazione in malattia mentale nella nostra società, come del resto molte sono le trasformazioni che hanno investito (con conseguenze più innocue) il ruolo e la funzione della fotografia nel suo passaggio da strumento "scientifico" di riproduzione della realtà a mezzo di espressione artistica.

La storia che la mostra ripercorre è dunque densa e cruciale: i corpi, i volti, gli sguardi dei matti internati nei manicomi chiamano in causa il rapporto instaurato nella nostra cultura tra salute mentale e malattia, tra noi precariamente sani e l'Altro, il nostro doppio folle e così pericoloso per sé e per noi da dover essere escluso e segregato. Reggio Emilia ha a questo proposito una sua vocazione precisa: alle porte della città l'Ospedale San Lazzaro, in origine lebbrosario e poi ospizio di poveri ed emarginati, è stato, fin dalla conversione in "Stabilimento generale delle case de' pazzi degli Stati estensi" nel 1821, una struttura di eccellenza la cui lunga storia, esemplificativa della vicenda di analoghe istituzioni manicomiali in Italia, si è conclusa solo con l'abbattimento dei muri di cinta nel 1978, anno di promulgazione della legge 180.

All'interno del San Lazzaro, nel 1877, viene allestito un laboratorio fotografico: il primo fotografo è Emilio Poli, un ex guardarobiere del manicomio, a cui succede un ex degente, Giovanni Morini. A loro si devono le immagini-incunabolo che aprono la prima sezione della mostra, intitolata "Memorie dalla città dei matti". Sono ritratti frontali di poveri volti senza nome, dalle fisionomie austere o stravaganti, ma ormai inesorabilmente lontane e criptiche se non altro per le fogge degli abiti e delle pettinature, sorta di foto segnaletiche che sotto riportano ciascuna l'indicazione della specifica malattia: cretinismo, frenosi pellagrosa, frenosi alcolica... Anche i nomi delle malattie sono antichi e presto saranno abbandonati, superati dal progredire e dal costituirsi della scienza medica psichiatrica.

I ritratti dei ricoverati del San Lazzaro testimoniano la fortuna ottocentesca della fotografia psichiatrica, intesa come strumento di documentazione, prova e modello per la scienza medica dell'epoca. Per la nascente psichiatria, convinta del primato dello sguardo e dell'osservazione anatomica, gli stati psichici patologici trovano nella fisionomia dei volti e nelle pose dei corpi un loro esatto corrispettivo, una forma sempre uguale che astrae dal caso individuale. Spetta quindi alla fotografia redigere una sorta di grande atlante dei tipi patologici, a cui il medico potrà fare riferimento per la sua diagnosi.

L'esempio più noto è rappresentato dalle immagini della Iconographie photographique de La Salpêtrière, realizzate negli anni 1879-1880 da Bourneville e Regnard, assistenti di Charcot nel grande ospedale femminile di Parigi. Le immagini descrivono, o meglio mettono in scena, le fasi del processo isterico, analiticamente scomposte e nominate in sequenze di pose e atteggiamenti tipici. Le grandi isteriche parigine, così amate dai surrealisti, ci raccontano in realtà come fosse falsa la pretesa di scientificità dello sguardo medico e come la posa congelata nella stampa fosse il frutto di una triste e asimmetrica complicità tra medico e paziente. Stefano Mistura, direttore del Dipartimento di salute mentale di Piacenza, scrive a questo proposito nel catalogo a corredo della mostra: "L'isteria produce uno stato nuovo per cui l'occhio suscita il morbo e il morbo non esiste senza l'occhio. La clinica, giunta ai propri limiti, si rovescia nei suoi fondamenti e il cosiddetto positivismo scopre, con l'isteria, una delle figure della modernità, vale a dire che il mondo non esiste se non secondo le modalità dell'osservazione".

Utilizzata fino ai primi anni del Novecento, la fotografia psichiatrica scompare quando la psichiatria incontra la psicanalisi e al primato dello sguardo si sostituisce quello dell'ascolto. Scompaiono però, con essa, anche i matti. Nelle nitide fotografie di Giuseppe Fantuzzi, chiamato a descrivere la vita quotidiana all'interno del San Lazzaro ai primi del Novecento, i malati, quando compaiono, sono intenti al lavoro o chini sui fogli da disegno. I letti nelle camerate vuote sono perfettamente rifatti e i refettori, suddivisi per censo, pronti per il pranzo. Sono immagini destinate alle grandi esposizioni internazionali e questo spiega l'ordine formale e contenutistico. Vi traspare comunque l'idea positivistica di una possibilità di cura, da attuarsi attraverso il lavoro e l'obbedienza alle regole di una comunità chiusa e classista, ma non indifferente o crudele.

La seconda sezione della mostra, "I manicomi svelati", ci riporta a tempi più vicini, agli anni Sessanta e Settanta, e alla grande stagione di denuncia e di impegno culminata con l'approvazione della legge 180 e la chiusura delle strutture manicomiali. Franco Basaglia, con la cravatta stretta, sorride a Gorizia nel 1968. In primo piano, nelle immagini di questi anni, ci sono di nuovo loro, i matti, nell'impietosa ostensione dei corpi stretti nelle camice di forza o ripiegati sotto il peso di una sofferenza opaca, degli sguardi vitrei, dei volti serrati come maschere, stipati in quelle navi dei folli scrostate e senza approdo possibile che erano diventati, o erano sempre stati, i manicomi italiani. Immagini potenti, pensate per colpire e indignare. Sono reportage famosi di fotografi importanti: Luciano D'Alessandro nel manicomio di Nocera Superiore in provincia di Salerno, Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati nei manicomi di Gorizia, Firenze, Parma, Ferrara, Venezia. E ancora Gian Butturini, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna, Raymond Depardon.

Rivedendole tutte insieme, alcune immagini acquistano particolare forza e valore simbolico: penso non tanto a quelle che immortalano la sofferenza e il dolore e che pure hanno dato un contributo determinante al dibattito di quel periodo, ma a quelle del "giorno dopo". La fotografia della liberazione dei lungodegenti del reparto "sudici" dell'ospedale psichiatrico di Trieste scattata da Gian Butturini, per esempio, è insieme domestica e solenne, e ricorda la liberazione degli internati nei campi di concentramento tedeschi: poveri esseri impauriti scendono a fatica i gradini del reparto, sorretti dagli operatori. Da sola è una risposta sufficiente a quanti criticano oggi la legge 180 e il "narcisismo ideologico" dei medici liberatori che avrebbero lasciato i malati senza protezione e senza difesa. E ancora penso alla sequenza di scatti di Uliano Lucas che nel 1988 riprende malati, medici e operatori seduti uno dopo l'altro, senza etichette che li identifichino, allo stesso tavolino di un bar di Trieste (il bar si chiama "Il posto delle fragole"). Ben venga almeno per un attimo la retorica del "siamo tutti uguali": dopo tanto orrore, credere che questo sia possibile riscalda il cuore.

"Al di là delle mura, tra le persone", terza sezione della mostra a Palazzo Magnani, assembla infine, con intenti ed esiti diversi, fotografi e immagini della contemporaneità. Ancora Uliano Lucas insegue la vita quotidiana degli ex internati nelle nuove strutture che li ospitano; Enzo Cei documenta gli ultimi anni di apertura del manicomio di Maggiano (Lucca). Roberto Salbitani, John Darwell, Marcello Grassi, Bruno Cattani, Kai-Uwe Schulte-Brunert, indagano quegli oggetti malinconici e spettrali rappresentati dalle strutture manicomiali ormai vuote: sono spazi fatiscenti che l'elemento naturale sta a poco a poco riconquistando, ma ancora in qualche modo saturi di quel troppo umano che li abitava, di cui rimangono spoglie, frammenti, minute rovine, come nella scena vuota di un delitto appena compiuto. La vita, sana o malata che sia, si gioca finalmente lontano da lì.

Ilaria Turba, unica donna presente in mostra insieme a Carla Cerati, propone intense composizioni in cui volti di matti e sani ripresi in primissimo piano si incontrano e si toccano, giustapposti alle facciate mute di ex ospedali psichiatrici. La fotografia più recente, esaurita la stagione dell'impegno sociale, si muove ormai secondo direttrici sue proprie e lo spazio per le immagini dei malati di mente è ritagliato all'interno di percorsi espressivi personali. Con il rischio di proporre a volte gallerie di freaks o campionari gratuiti di povere mostruosità, fra Lombroso e Diane Arbus, ma senza la gelida passione della fotografa americana.

A Correggio, infine, Palazzo dei Principi ospita l'ultimo capitolo della mostra, dedicato a "Prigioni e rifugi, nelle terre del mondo": le immagini di Alex Majoli dall'isola greca di Leros, Claudio Edinger dal Brasile, Chien-Chi Chang da Taiwan, Anders Petersen da Stoccolma, si incaricano di ricordarci con forza che il cammino intrapreso per liberare i matti dalle loro stigmate è precario e difficile, e che la sofferenza psichica e l'internamento che la duplica e la sancisce sono realtà ancora ben vive e presenti.

"I volti della follia. Cent'anni di immagini del dolore" è promossa dalla Provincia di Reggio Emilia e dal Comune di Correggio ed è aperta nelle due sedi espositive fino al 22 gennaio 2006 (www.palazzomagnani.it). Il catalogo, curato da Sandro Parmigiani, è edito da Skira.

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