Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

musei e beni culturali / progetti e realizzazioni, restauri, pubblicazioni

Il restauro della chiesa bolognese di Santa Cecilia restituisce un episodio architettonico e decorativo tra i più importanti per la civiltà del Rinascimento padano.
Sistina felsinea

Elisabetta Landi
[IBC]

"Il più poetico complesso di affreschi dell'ultimo sogno dell'Umanesimo". Così Andrea Emiliani definisce "le raffinate, cortesi storie di Santa Cecilia e San Valeriano" dipinte a Bologna dall'équipe dei pittori dei Bentivoglio intorno al 1505. Giusto alla metà di quel primo decennio che fu fatale, per l'illustre signoria, spodestata di lì a poco dalla città delle due torri a partire dal quartiere della corte, allargato su strada San Donato. L'occasione per quest'ultima rivisitazione è la novità editoriale dedicata da Daniela Scaglietti Kelescian e da altri studiosi alla chiesa di Santa Cecilia, sistemata per i signori di Bologna a ridosso della posterla di San Giacomo Maggiore (La chiesa di Santa Cecilia in Bologna. Riscoperte e restauri, a cura di D. Scaglietti Kelescian, Bologna, Studio Costa, 2005, 80 p., _ 15,00).

Un episodio architettonico e decorativo tra i più importanti per la civiltà del Rinascimento padano, reintegrato di fondamentali pagine oggi finalmente leggibili grazie ai restauri promossi dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna sugli affreschi dell'atrio. Opere perdute, prima dell'intervento di Emma Biavati, o comunque "nebulose" in quello spazio aperto, luogo di accesso al convento, e quindi alle scuole elementari e all'asilo. Ripetuti furono, del resto, i cantieri che nel tempo alterarono l'assetto della parrocchiale. Di origini romaniche, venne acquistata con il terreno circostante nel 1267 dagli Eremitani in previsione dei lavori necessari alla costruzione di San Giacomo Maggiore. Abbattuto il più antico edificio per fare posto alla struttura absidale, nel 1359 l'ordine poté erigere la nuova chiesa a breve distanza dall'originale, sulla cui antica ubicazione gli studiosi non concordano tuttora.

Ma fu soltanto con le trasformazioni volute da Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna dal 1463, che l'oratorio subì le modifiche più consistenti in conseguenza dell'adeguamento della basilica a luogo per il culto palatino. Modifiche ispirate al Rinascimento centroitaliano, come si legge nel sereno portico rinascimentale progettato da Gaspare Nadi (forse in sostituzione di un precedente colonnato) e nello spazio cubico della cappella gentilizia. Disegno atipico, per l'area padana, ma non certo per il fiesolano Pagno di Lapo Portigiani, che si ispirava al più corretto ambito toscano, da Brunelleschi a Michelozzo. Prediletto dai Bentivoglio, che gli affidarono il progetto della Ca' Grande su strada San Donato, Pagno di Lapo addossò l'abside della cappella di famiglia all'ingresso della chiesa trecentesca retrostante, in un inedito quanto audace allineamento degli spazi liturgici di corte.

Santa Cecilia ne risultò in tal modo "collegata", piuttosto che "accorciata", come voleva invece un'ipotesi tradizionale soppiantata dall'analisi convincente di Alessandro Volpe. Nel 1483 toccò all'architetto Nadi elevare il pavimento della chiesetta al livello del porticato e nobilitarne il soffitto con una più slanciata copertura a volte, in sostituzione delle vecchie capriate. Terminate le operazioni di cantiere, all'aprirsi del Cinquecento venne avviata la decorazione parietale. La "Sistina bolognese", come la definì Calvesi (1960): e non a caso, perché davvero evocarono il coevo "monumento" pittorico vaticano gli esiti straordinari di questa impresa, episodio rilevantissimo di mecenatismo nel panorama artistico cittadino.

Il dibattito sugli affreschi con le Storie dei Santi Cecilia, Valeriano e Tiburzio, i meglio conservati e qualitativamente i più interessanti del Rinascimento bolognese, venne suscitato in età moderna da Roberto Longhi, che con la sua Officina (1934) stimolò, protraendolo nel tempo, il "gioco" dell'attribuzione agli autori, Francesco Francia, Lorenzo Costa e Amico Aspertini, impegnati in "virtuosa emulazione" tra di loro, con l'aiuto dei meno noti Giacomo e Giulio Francia, Tamaroccio, Chiodarolo e Bagnacavallo seniore.

Oggi, grazie alle recenti operazioni di restauro, due nuove opere si aggiungono al catalogo dell'Aspertini, al quale è così possibile ricondurre l'Assunzione della Vergine e il San Giovanni a Patmos affrescati nell'ambulacro di separazione dall'abside antistante. Una testimonianza inedita straordinaria, a conferma di un impegno pittorico già intuito da Roberto Longhi, che negli Ampliamenti all'Officina del 1956 ipotizzava in quegli spazi degradati la mano di questo raro e affascinante artista bolognese, noto sino a ora per poco più di una cinquantina di dipinti. Ma per ben più numerosi disegni, tra i quali la prova grafica conservata a Windsor Castle e associata dalla Scaglietti all'Assunzione nell'ambulacro: un utile strumento per la posticipazione di questi esiti al soggiorno toscano di Amico Aspertini (1508-1509).

 

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