Rivista "IBC" XX, 2012, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, linguaggi, didattica, pubblicazioni

All'Accademia di belle arti di Bologna lo studio della fotografia affronta i cambiamenti dell'era digitale. Senza dimenticare l'attenzione al territorio.
Fotografare responsabilmente

Luciano Leonotti
[Accademia di belle arti, Bologna]

La città si era da poco risvegliata dall'ottundimento della canicola estiva e lanciava segnali di vita lungo i portici bassi e squadrati di via Centotrecento, che con le loro tacche ritmiche di luci ombre e colonne mi ricordano una pellicola da 35 millimetri srotolata lungo i palazzi. Un manifesto giallo con l'immagine di una macchina fotografica e un headline ("I am your teacher") colpiscono la mia attenzione, seguono le caratteristiche tecniche: 24 megapixel, full frame, video, full HD. "Un computer con l'occhio di vetro che mi sostituisce. Perfetto!".

Le macchine stanno sostituendo l'uomo in tutti i settori, nel bene e nel male, e come sempre l'equilibrio tra costi e benefici è difficile da valutare. L'automazione è il frutto dell'intelligenza umana, risolve compiti gravosi e facilita operazioni complesse, ma occorre che l'uomo sia sempre padrone di queste operazioni.

L'Accademia di belle arti di Bologna, a parte il personale della portineria, era deserta, i corridoi sembravano ancora più grandi e i gessi parevano muoversi lentamente al mio passaggio, nella luce del mattino.


Con il digitale la fotografia sta rivivendo una nuova euforia, come ai tempi di George Eastman, l'inventore della Kodak 1890 ("You push the button we do the rest"), e sta di nuovo cambiando la percezione della realtà. La maggioranza delle persone che prima facevano solo foto delle vacanze, oggi scattano migliaia di immagini con macchinette e soprattutto con cellulari, immagazzinandole nei computer, perché poi sono incapaci di selezionare.

È una fotografia di consumo, dove l'importante è compiere il rito dello scatto, possibilmente davanti agli altri, e decretare così la propria appartenenza alla specie digitale sempre connessa con tutti e in continua fibrillazione con la realtà; una realtà apparente, dalla superficie traslucida, ironica, friendly. Non si accorgono, invece, di reiterare un comportamento dettato dalla macchina, che impone di esaltare soprattutto le sue funzioni tecnologiche, in una competizione che porta la tecnologia a evolversi molto rapidamente mentre l'essere umano fa fatica a tenere il passo e in alcuni casi tende a regredire: pensate ai ragazzi, che stanno troppo tempo collegati a internet o davanti alla playstation e non vogliono più uscire dalla loro stanza, manifestando evidenti disturbi comportamentali, e sono presi da ritmi compulsivi che ricordano il neonato che non sa aspettare ed esige subito la soddisfazione del proprio desiderio, deprivato di quella funzione fondamentale che è l'immaginazione.

Altro discorso per la fotografia professionale e d'autore. Per i professionisti il mercato si è ristretto, la committenza di lavori semplici è quasi sparita, il cliente si autoproduce le immagini che gli servono, mentre per il lavoro che a loro si richiede occorre una buona preparazione in termini creativi, la capacità di interagire con altre discipline, dal video alla grafica, e di risolvere problemi di comunicazione visiva.

La fotografia d'autore, negli ultimi anni, è stata al centro di un grande interesse da parte dei circuiti espositivi, ci sono nuovi talenti che realizzano progetti seri e interessanti. Anche gli "artisti" che usavano altro materiale ora usano la fotografia, magari scaricandola da internet o facendola con il telefonino, e questa pratica è stata accettata, e purtroppo, anche da prestigiose istituzioni fotografiche, come il World Press Photo, che ha insignito di una menzione d'onore un certo Michel Wolf, che visionando Google Maps ha selezionato immagini di passanti che scivolano sull'asfalto.

In Italia ci sono numerosi festival di fotografia internazionale, e gli autori italiani sono i più interessanti; per gli studenti sono occasioni di confronto importanti per riflettere sul linguaggio fotografico contemporaneo, estremamente complesso nella sua apparente semplicità. "L'analfabeta del futuro" - scriveva Walter Benjamin - "non sarà chi non conosce la scrittura ma chi non conosce la fotografia". E la conoscenza passa attraverso gli autori che hanno fatto la storia della fotografia, da Atget a Walker Evans, da Paolo Monti a Luigi Ghirri, a quelli contemporanei. Occorre conoscere il cinema più visivo, quello di Michelangelo Antonioni, Andrej Tarkovskij, Ridley Scott.

L'avvento del digitale ha permesso di essere artefici di tutto il percorso creativo, dallo scatto alla correzione cromatica, alla postproduzione, fino all'impaginazione di uno stampato, e ha reso possibile realizzare anche una sola copia di un libro con un risultato perfetto. Nell'era analogica, nel tempo rallentato, per fotografare bene occorreva avere esperienza, conoscere anche le diverse caratteristiche delle pellicole: la Kodak che dava sul rosso, la Fuji che dava sul blu, quella più morbida, quella più dura, quella per luce artificiale. Bisognava usare i filtri per togliere le dominanti di colore dalle fonti di luce industriale, e si facevano le prove con la Polaroid prima di scattare. Per non parlare del bianco e nero, dei diversi sviluppi, delle diverse gradazioni e marche delle carte. Questi procedimenti non controllabili immediatamente, come invece avviene nel digitale, necessitano di un atteggiamento responsabile, deciso, senza esitazioni, e soprattutto richiedono di avere le idee molto chiare su cosa si vuole ottenere.


Quest'anno, all'Accademia, vorrei che i nuovi studenti del triennio iniziassero a fotografare su pellicola, almeno tre rulli, prima di passare al digitale, perché possano imparare meglio i rapporti, i tempi di scatto e il diaframma per una giusta esposizione, per abituarli a fotografare di meno e a pensare di più, per far loro vedere la differenza tra un'immagine analogica e una digitale, le differenze cromatiche, i procedimenti di sviluppo e stampa. Si tratta di procedimenti più comprensibili rispetto agli stessi meccanismi del digitale, tanto è vero che il corso di camera oscura è seguitissimo; avere a che fare con acidi, carte, e con l'immagine che appare sul fondo di una bacinella, è molto pìù emozionante che accendere un computer.

Qui, allora, nasce un'esigenza per gli studenti, quella di sperimentare direttamente più materiali e tecniche. Prima di oggi questo era possibile, c'erano macchine di diverso formato, il formato da 35 millimetri, il medio formato da 120, il grande formato del banco ottico, pellicola negativa o positiva; ora la tecnologia, per sua natura, tende a omologare: una sola macchina, e con quella si fa tutto, anche i video.

Nel processo della stampa digitale, d'altro canto, occorre risolvere numerosi problemi di calibrazione del monitor, per cui quello che uso per visionare le immagini deve essere "tarato" con quello di chi stampa, se no si otterranno risultati diversi. Per contro, però, si può stampare su supporti particolari (legno, ferro, pietra; fino a 7 centimetri di spessore) o sulle tradizionali carte cotone, e si possono rinverdire anche tecniche del passato come la stampa al carbone, straordinaria per i neri intensi e profondi.

Il luogo giusto per conoscere e approfondire idee e tecniche dell'arte è proprio l'Accademia. Ci sono circa trecento campi disciplinari distribuiti in varie aule-laboratorio: quelle con enormi vetrate e cavalletti che sorreggono lavori di pittura, disegni, schizzi, piene di macchie di colore sul pavimento; quelle più semplici, con sedie, proiettori, computer; la nostra, con i fondali alle pareti, le lampade e i cavalletti; quella di scultura, con lavori disseminati dappertutto e ricoperti da una polvere bianca che sa di tempo lento, quello necessario a scolpire; e vicino c'è l'aula teatro, un vero teatro per i corsi di scenografia e per l'allestimento di spettacoli. Il tutto in un contesto labirintico fatto di corridoi, aule sotto, aule sopra, in alto tra il silenzio dei tetti, e lo studente deve imparare a orientarsi in fretta. Alla sera, prima di chiudere cancelli, porte e porticine, il personale addetto urla a gran voce: "C'è qualcunooo?"; e l'eco ogni tanto raccoglie una timida risposta di qualche studente che si è perso perché era concentrato nel suo lavoro, o che si è perso e basta.


L'Accademia è anche un cantiere. Si tratta di un edificio antico: il convento di Sant'Ignazio e la sua chiesa a pianta circolare, ora aula magna, recentemente restaurata, con il ritrovamento fortunoso del portone d'ingresso che era stato a suo tempo smontato, depositato e dimenticato al Davia Bargellini. Sono stati recuperati spazi nuovi per nuovi corsi, è un organismo vivente in continua evoluzione. Scrivo tutto questo stando affacciato alla finestra dell'ultimo piano dell'aula di fotografia, la sala posa, guardando l'immenso cortile con al centro il pozzo del Terribilia trasferito qui da Palazzo D'Accursio. Sotto di esso si trova il Salone degli Incamminati, lo spazio espositivo condiviso con la Pinacoteca che si affaccia anch'essa sul cortile.

Sto riordinando le attrezzature per l'inizio dell'anno accademico. Avremmo bisogno di più spazio, il corso specialistico esiste dal 2009 e le domande di iscrizione degli studenti crescono di anno in anno, perché il linguaggio fotografico, nella sua apparente semplicità, è molto complesso e si modifica continuamente, sia sotto l'impulso delle nuove tecnologie sia per una maggiore complessità culturale che i nostri tempi ci impongono. Le accademie, in Italia, sono un patrimonio che dovrebbe essere valorizzato per accrescere il nostro primato artistico e di conseguenza quello della nostra economia.

Siamo due docenti di cattedra, più altri esterni a contratto e quelli invitati per i workshop; per quanto mi riguarda, lavoro su più fronti: il paesaggio urbano, il ritratto, la fotografia pubblicitaria - vero esercizio concettuale di comunicazione visiva - e la messa in pagina delle immagini realizzate in forma di libro, per imparare a definire il progetto dall'inizio fino alla fine (l'abbinamento e il rapporto tra le immagini, la conoscenza dei diversi font tipografici, la scrittura dell'introduzione al lavoro).

Per la parte teorica, mi occupo della fotografia d'autore con lo studio dei fotografi contemporanei, primo fra tutti Luigi Ghirri. Con Luigi ci siamo conosciuti quando facevo l'art director all'agenzia pubblicitaria "Cespe&Co"; tra i nostri clienti avevamo la Regione Emilia-Romagna, e lui venne da noi con Claude Nori, un autore francese che stava lavorando sui giovani adolescenti, per consegnarmi le fotografie sulle terme che gli erano state commissionate. Immagini bellissime, soprattutto quella di una palestra in cui nello specchio si rifletteva la realtà opposta: soglia, doppio sguardo, dilatazione dell'immagine oltre il confine del rettangolo della carta e rigore sapiente dell'inquadratura. E poi quei colori pastello, morbidi, dati dall'uso del negativo e stampati con cura e personalità da Arrigo Ghi, che aveva inventato un procedimento tutto personale per "mattare" in maniera così vellutata le stampe.

Dopo quel giorno rividi Ghirri in diverse occasioni e ogni volta ne approfittavo per mostragli i miei lavori, quello fatto a Londra nella zona dei docklands, quello sulla riviera romagnola, che è diventato il racconto del mio primo libro, impreziosito dal suo testo. Luigi Ghirri è stato un grande fotografo ma anche un grande teorico del linguaggio fotografico, ogni suo lavoro è frutto di un progetto preciso che gli ha consentito di rivoluzionare la fotografia italiana del dopoguerra e anche quella europea, formulando una sua poetica e una sua visione del mondo. Me lo ricordo, attento, in ascolto del suo interlocutore, con gli occhiali "perennemente sporchi" (come diceva sua moglie Paola), davvero un punto di riferimento per molti fotografi. Quando morì, a soli 49 anni, la sua tomba coperta di fiori e da sciami di api guardava un muro basso di sasso che divideva il camposanto dal campo arato. Una sua fotografia.


Guardo adesso, da questa finestra, la terra cotta dei coppi sui tetti di Bologna, che brucia riscaldata dall'ultima luce, e in questa ora crepuscolare non posso non ricordare anche Roberto Roversi, appassionato di questa città, per la quale abbiamo condiviso un racconto: io con le mie immagini realizzate lentamente nel corso degli anni, dense di atmosfere che ora non esistono più, lui dialogando con esse, in uno scambio di memoria e di visionarietà poetica.

Bologna, nell'immutata sua antica scenografia, in realtà ha mutato la sua vita, e urbanisticamente si espande e dilaga nella pianura in modo disordinato. Il progettare non si confronta più con l'idea di continuità per creare un tessuto armonico. Viviamo nella singolarità, nell'individualità, sicuramente necessaria per affermare il proprio sé, ma che paradossalmente porta a una mancanza di identità dei luoghi, che sono tutti uguali, in tutto il mondo, e c'è quindi la necessità di chiamare grandi architetti per realizzare opere di significato simbolico.

La fotografia può raccogliere questa esigenza di confrontare, analizzare, interpretare il nostro ambiente urbano, il grande immenso laboratorio dove viviamo, e per questo ho pensato di realizzare una rivista, "Urbanreflex", nella quale far coincidere l'esercitazione degli studenti sul paesaggio urbano, per una lettura del territorio capace di comprendere la trasformabilità, l'utilizzo, il senso, coinvolgendo in questo lavoro l'urbanista Mario Piccinini e l'architetto Piero Orlandi, dell'Istituto regionale per i beni culturali, per individuare le aree e per scrivere i testi. Un modo per tentare di orizzontarci e per proporre un modello di indagine utile sia per gli studenti sia per noi, e per chi vorrà guardare e pensare.

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