Rivista "IBC" XXI, 2013, 3

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

La Galleria comunale "Villa Franceschi" fa rincontrare, a due passi dal mare, il talento pittorico di Antonio Ligabue e quello artistico e narrativo di Cesare Zavattini.
Toni e Za, insieme a Riccione

Orlando Piraccini
[IBC]

Dicono a Riccione che una mostra così non s'era mai vista. Che non s'erano mai contati tanti turisti "giornalieri", arrivati qui da ogni parte proprio per incontrare lui, Toni; e poi, magari, anche per un po' di mare e un raggio di sole e una "vasca" nel rinomato viale Ceccarini. Secondo alcuni, è tornata a brillare l'adriatica "perla" da quando si è cominciato a propagandare meno il divertimentificio e si fa un po' più cultura. Stan tornando i tempi belli? Quelli della mondanità balneare che nel dopoguerra fu perfino colorata ad arte? Qualcuno ricorda quando il "Savioli" faceva feste e chiamava a sé i celebri artisti a dipingere dal vero; e quando potevi vedere Guttuso e altri protagonisti della rinascente pittura italiana alle esposizioni del Palazzo del Turismo.

Intanto, apposta per presentare Ligabue (Toni), a Riccione è tornato Za (Zavattini), che nella "fascinosa" era venuto già nel '47: e quella volta per tributare onore (e consegnare premio) a un artista di talento della parola come Italo Calvino. Durante quest'estate, migliaia son stati i visitatori che si son fatti guidare dallo scrittore di Luzzara nell'universo fantastico di Ligabue. E sotto l'ombrellone, intanto, ci si interrogava: ma cos'è questa mostra di Ligabue: una specie (Cesare ci perdoni!) di "miracolo a Riccione"?; oppure (più realisticamente, a nostro parere) c'entra un po' di "buon governo"? o è in atto (più verosimilmente, sempre secondo noi) un "effetto museo" di Villa Franceschi che prima non c'era?

Prodigi e politiche culturali a parte, nel villino che fu luogo di vacanza della famiglia imolese dei Franceschi, due fatti sono accaduti: che un'istituzione culturale ancora "bambina" (con i suoi appena otto anni di vita) è arrivata a far di Riccione un caposaldo nel sistema regionale dell'arte moderna e contemporanea, e che il successo (sperato certo, ma non così clamoroso) ha segnato una mostra promossa - è vero - nel nome sempre attraente (e di sicuro richiamo) di Ligabue, ma che certo il "fantasmone" zavattiniano ha finito per rendere preziosamente unica e per questo ancor più mirabile.


Una casa per l'arte

Questa, in formato ristretto, la "carta d'identità" di Villa Franceschi, che è stata offerta ai visitatori della mostra "Ligabue: 'Toni' e la sua arte nel racconto di Cesare Zavattini" (11 luglio - 6 ottobre 2013).1

· Nome: Galleria d'arte moderna e contemporanea;

· Proprietà: Comune di Riccione;

· Anno di nascita: 2005;

· Luogo: via Gorizia, adiacenze Grand Hotel;

· Tipologia edificio: villino residenziale;

· Ideatori: Lorenzo Campioni, Nazareno Pisauri;

· Progettisti del restauro architettonico: Pier Luigi Foschi, Stefano Guidi, Luciano Zavatta;

· Caratteristiche e impianti: secondo i più aggiornati standard museali;

· Servizi al pubblico: visite guidate, supporti informativi, cataloghi, archivio;

· Attività collaterali: cicli di conferenze, incontri, laboratori didattici;

· Direzione: Daniela Grossi;

· Organo consultivo: comitato tecnico-scientifico;

· Partner: Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBC), Provincia di Rimini;

· Organismi di supporto: associazione "Amici dei Musei di Riccione";

· Ordinamento espositivo: Claudio Spadoni;

· Esposizione permanente: opere della collezione comunale d'arte e della "Raccolta Arcangeli" (deposito dalla Regione Emilia-Romagna);

· Principali mostre temporanee: "Nicolosa Rastelli Leziroli" (2006), "Virgilio Guidi" (2007), "Aldo Borgonzoni, testimone del tempo" (2009), "Lucio Saffaro" (2009), "60 - sessanta e dintorni" (2010), "Sogni di carta" (2011), "Filippo de Pisis" (2012), "Ligabue" (2013).

È museo - "Certo che siamo museo!", dicono a Villa Franceschi - ma questa era una casa per le vacanze e oggi è una casa per l'arte. E non per caso: qui si punta molto sull'accoglienza, sull'essere "musealisticamente" ospitali. Ma l'alto gradimento sembrerebbe dipendere assai dalla formula: ovvero, il frequente "cambiar faccia" della galleria, con opere che entrano ed escono dal deposito secondo ben studiati schemi espositivi, e, specialmente con l'innesto di mostre temporanee di notevole presa sulla comunità riccionese, ma anche di forte richiamo per l'utenza turistica.

Non mancano poi i segni di un lavoro faticoso ma redditizio, che riguarda la costruzione di una rete di rapporti con altre istituzioni culturali "consorelle" in ambito territoriale sia locale che nazionale. Qui è stato ben inteso il richiamo autorevole di Ezio Raimondi, quando era presidente dell'IBC, a far del museo un laboratorio dell'"intesa negoziata": capace, cioè, di dar luogo davvero a un sistema relazionale tra soggetti ed enti diversi tra loro, ma tale da favorire anche aperture, scambi, confronti tra comunità troppo spesso chiuse in sé stesse e alle prese con i loro interessi di campanile.

Si dicono sicuri, a Villa Franceschi, che grandi mostre recenti - come quelle di Borgonzoni e di Guidi e di de Pisis e, oggi, quella stessa di un Toni "introdotto" da Za - non sarebbero state possibili senza un'adeguata "rete", protettiva e propositiva al tempo stesso. È evidente, infatti, che nel "valore aggiunto" della presenza zavattiniana alla straordinaria rassegna su Ligabue non può proprio esservi stata casualità. L'idea - la "trovata", come da qualcuno a Riccione è stata definita - di affidarsi a Zavattini (lui artista della parola e, come ben si sa, anche del colore) per fare la conoscenza di Ligabue e della sua opera, è scaturita dal "prorompente" archivio che di Cesare porta il nome. Archivio che gli eredi hanno donato alla Biblioteca "Antonio Panizzi" di Reggio Emilia e che la Soprintendenza regionale per i beni librari e documentari ha giustamente posto sotto la propria osservazione.

Proprio le carte hanno rivelato il gran lavoro di Za "su Ligabue": dal testo in forma poetica del '67 (ripubblicato nel 1974 dall'editore Scheiwiller nella collana "All'Insegna del pesce d'oro" e poi, dieci anni più tardi, nei "Tascabili Bompiani") fino al soggetto e alla sceneggiatura per il film di Salvatore Nocita per la televisione italiana ha mandato in onda nel 1978; e poi gli appunti, i preziosissimi "echi della stampa"; e poi ancora, e verrebbe da dire specialmente, certi ricordi del "Toni" in forma di disegni e incisioni. Così, dunque, Cesare Zavattini è ritornato a Riccione per raccontarci di un artista delle sue parti, da tutti chiamato "Toni": un tipo po' strano, ma che, in fondo in fondo, "era uno di noi".


Il ritorno di Za

"Ho attraversato la piazza di Luzzara fingendo di essere Antonio Ligabue". Così parlando, Cesare Zavattini si è ripresentato a Riccione, esattamente come aveva scritto quasi in apertura del memorabile poemetto dato alle stampe da Franco Maria Ricci nel '67. Come il lettore di allora, Za è sembrato avvertire il visitatore di oggi: che sì, lui, insomma, ha provato a essere un "biografo serio", magari anche riuscendovi, ma le sue parole, di nuovo pronunciate, dovevano essere intese come una dedica al "Toni", venute da dentro, da un sentire forte, da uno stato di immedesimazione, appunto.

Si può dire oggi, stando agli indici di gradimento espressi dal pubblico, che quella storia, che Zavattini aveva cominciato a raccontare nel "caldo antico" di ferragosto, a due anni appena dalla scomparsa di Ligabue, è stata ancora capace di stimolare un contatto più diretto e ravvicinato con l'autore di una pittura tanto speciale, nata come nelle favole. Certo, sul fenomeno Ligabue non sono mancati, specialmente in quest'ultimo periodo, importanti studi e ricerche; e giustamente sono stati anch'essi richiamati nella mostra riccionese per una più agevole esplorazione del fantastico mondo del pittore di Gualtieri. Ma l'approccio zavattianiano a Ligabue è stato davvero altra cosa, perché scaturito proprio da quella fatale attrazione per la pittura che così gran breccia ha fatto nella poliedrica creatività del maestro luzzarese.

È un aspetto che abbiamo avuto personalmente modo di indagare (bella impresa davvero!): non semplicemente sulle questioni del fare arte, ma sul modo - teorizzato da Za, appunto - di intendere l'arte entro la cornice sociale del suo tempo. E su questo punto sono ancora tanti i codici da decifrare per stabilire una giusta connessione, per esempio, fra lo Zavattini artista dell'immagine e quello artista della parola, fra lo Zavattini che dipinge, insomma, e quello che parla e scrive di pittura. È ancora imperscrutabile, infatti, la sfera nella quale si proiettano certi giudizi sibillini rivolti a sé stesso, del tipo: "Ho messo in giro la voce che sono un pittore che non sa dipingere. Ma è certo che sono un pittore?"; e come non tenere in buon conto certi frequenti gridi d'allarme, per esempio per le manipolazioni commerciali di un'arte senza più autenticità e originalità, del tipo: "Si può anche non fare pittura. Anzi, qualche volta il non farla può diventare un atto creativo. Mi sono spiegato?".

Ma se è vero che Zavattini ha intravisto nella pittura da lui identificata come autenticamentenaïve la giusta via per una rottura clamorosa con il reale, con i conformismi degli stili correnti, nella vita come nell'arte, non è allora scandaloso affermare che il colloquio del nostro con quel tipo di creatività, a quel punto, è andato oltre le parole, investendo direttamente, forse, le ragioni fondanti del suo far pittura. Il dialogo del pittore con l'uomo Ligabue appare allora veramente ravvicinato: perché proprio i selvaggi visionari padani della naïveté hanno "rotto il fronte 'angelico'" o spezzato i canoni dominanti di una rimembranza involuta e retorica, svuotata di ogni viva memoria, come anche dell'esotico più improbabile, bamboleggiante o zoofilo, e perfino da tanta arcadia pervaso.


È stata, questa di Riccione, una buona occasione per rileggere certe riflessioni di Za sull'improbabilità del proprio operare in rapporto all'"arte ufficiale", riflessioni intese talora dalla critica come vezzosi autocompiacimenti, ma che meglio sarebbe considerare come autentici esercizi di ironia. Per rileggerle alla luce della personale esperienza di pittore nella sfera di una creatività sostanzialmente esercitata per diletto, sorretta dalla fantasia, ma ravvivata da una speranza tenace sulle infinite possibilità della pittura, pur ammettendo che "un giorno non si dipingerà più, qualora il dipingere venga inteso come un modo di essere e di capire, e l'iter del pennello troppo lento per partecipare non soltanto ideologicamente agli eventi".

È casuale il fatto che nel 1975 (quando Za ancora scriveva su Ligabue per il catalogo della grande mostra di Gualtieri e in più occasioni aveva polemizzato contro certa visione idealistica dell'arte, biasimando "le deteriori conseguenze dell'ammirazione per il pittore, per l''artista geniale'", dato che "non è l'individuo pittore che dobbiamo ammirare, ma l'uomo, l'uomo come specie, che è capace di dipingere, e di fare mille altre cose"), è casuale che proprio in quell'anno sia nata una serie infinita di autoritratti, con le loro condense colorate di riflessioni, umori, sensazioni, stupori? È come se Zavattini avesse voluto farsi direttamente carico di risposte concrete alla questione assolutamente etica di un'arte intesa "come patrimonio e strumento comune e quotidiano: non più fatta 'da altri' e in fondo 'per altri'". Una questione che era stata stimolata dall'esperienza naïve, ma di fatto era rimasta sostanzialmente irrisolta.


Nota

(1Ligabue: "Toni" e la sua arte nel racconto di Cesare Zavattini, a cura di D. Grossi e C. Spadoni, Torino, Umberto Allemandi & C., 2013, 144 pagine, 25,00 euro.

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