Rivista "IBC" XXV, 2017, 3
Dossier: Giardini di città
territorio e beni architettonici-ambientali, dossier /
Il rapporto dei bolognesi col verde è stato spesso problematico. Se il tema dell’indagine fotografica vuole essere la ricerca di “situazioni di verde” c’è solo l’imbarazzo della scelta.
È noto che la conoscenza della storia minimale di ciascun lembo di verde può influenzare chi si accinge a riprendere gli scorci e gli insiemi: è quindi indispensabile ripercorrere le vicende che hanno portato gli spazi ad assumere le loro connotazioni specifiche per poter coscientemente “vedere” i siti.
Non si è impassibili spettatori: ogni lettura (immagine) è una interpretazione.
La tavola del 1969 che censisce le tipologie edilizie presenti nel centro storico lascia intravvedere quanti lembi di verde e giardini occupano l’ampia zona contenuta dalla linea dei viali di circonvallazione. Sono tracce superstiti di un sistema complesso che aveva raggiunto un suo equilibrio quando le case artigiane ed operaie, i palazzi e i grandi conventi potevano contare su spazi verdi complementari. Esemplare resta, celato da alto muro, il grande orto del Convento del Corpus Domini. Un ambiente perfettamente conservato, immutato da secoli. A partire dalla interessantissima rappresentazione dell’affresco conservato nella Sala Bologna in Vaticano che fissa l’immagine della città nel 1575 si possono compiere utili considerazioni sul mutamento, sulla continua evoluzione di alcuni siti. Volendo concentrare l’attenzione al solo centro storico si possono individuare casi di attenta progettazione, di coinvolgimento, di gradimento ma poi si devono registrare i successivi momenti di crisi, di abbandono… di degrado.
Alla fine restano domande che non hanno risposte: che cosa ha indotto all’incuria? che cosa è successo per arrivare allo stravolgimento degli spazi? Forse disaffezione o ignoranza o, peggio, il perduto senso della civile convivenza…? Per un racconto sono state scelte situazioni diverse.
La prima, in ordine di tempo e di complessità, è quella data dal Giardino della Montagnola.
Il primo passeggio pubblico in Bologna fu creato sulla Montagnola, sul cumulo di detriti formatosi a forza di macerie e scarichi nella parte nord della città. Nell'affresco vaticano del 1575, la Montagnola appare come una massa incolta, con il contiguo campo del Mercato solcato da attraversamenti in diagonale. Il gran rilevato di terra al fondo della piazza del mercato, contro le mura, e prossimo ai resti della Rocca distrutta più volte, aveva subito una prima regolarizzazione nel 1538 diventando un boschetto di mori-gelsi. Solo nel 1662 Paolo Canali risistemò il sito con un preciso disegno, ma non era ancora un giardino, strutturato e pensato come una sequenza di spazi verdi variamente suggestivi o evocativi come potevano essere le esclusive delizie prossime ai palazzi o alle ville, ma un luogo speciale, del tutto nuovo per la città: Canali infatti, oltre a rimodellare il bordo del rilevato creò un “corso”, un viale centrale, per consentire un percorso alle carrozze, con un piazzale in sommità per favorire il rigiro.
Nei primi anni del Settecento, Montesquieu ( 1), soggiornando brevemente in città, visitò la Montagnola (ma nel ricordo il nome diventa Monticello) ed elogia sia l’amenità del luogo sia la presenza di un piccolo edificio particolare per pochi privilegiati:
"Arrivai a Bologna il mattino del 9 luglio 1729....mi condussero al Monticello, che è il corso di Bologna: una piccola eminenza, fuori città, circondata da alberi che formano un gran piazzale rotondo con altri alberi al centro e intorno, e prati, tutto molto bello. Là vanno le signore, in carrozza, e i cavalieri scendono da cavallo per far loro la corte. Vanno poi in un salotto, dove non c'è né padrone né padrona di casa: è un ritrovo pubblico, finanziato dai nobili; e quando uno straniero vi è ammesso, è padrone come gli altri”. ( 2)
Poi, nel 1757, per sottolineare l'uso pubblico, furono collocati sette grandi sedili in pietra e il giardino cominciò ad entrare nelle abitudini dei bolognesi.
Ai primi anni dell'Ottocento, un radicale riassetto della zona fu affidato all'ingegnere Capo della Prefettura di Bologna, Giovanni Battista Martinetti ( 3). Il disegno progettuale è una rigida ricerca di simmetrie, una geometrizzazione tanto forte da divenire un segno urbano tra i più significativi di Bologna. La grande spianata circolare disegnata da Martinetti è raccordata alla piazza del mercato con un piano inclinato, sottolineato ai lati da due ampi viali alberati ( 4). Ma le mode cambiano e nel 1840 Carlo Berti Pichat invocava che fosse annullata quella “specie di tavola geometrica segnata da concentrici circoli, e linee parallele e singolar modello di perfetta monotonia”. Avrebbe preferito un disegno più naturalistico: “Disfate quell’opera assurda, qualunque altra foggia adottiate sarà sempre più leggiadra ed amena, non fosse che un maestoso viale serpeggiante in un ampio e florido prato sparso di alcune macchie di piante”.
In seguito nel disegno ordinato comparvero diverse “aggiunte”. Al termine dell’Esposizione del 1888 venne qui trasferita la gran vasca con le statue di cemento che aveva ornato il piazzale centrale nel Giardino pubblico Margherita: leoni, sirene, leonesse, tartarughe… E ancora, nel 1896, si volle collegare il giardino alle nuove strade e piazze vicino alla Stazione costruendo una sontuosa scalinata, su disegno di Attilio Muggia, che per la vaga somiglianza con la situazione simile in Roma, prese il nome di Pincio ( 5). L’affaccio non ha mai trovato una prospettiva degna: nella piazza sottostante in un primo tempo campeggiò un edificio per bagni, poi uno scatolare albergo.
Ma le vicende della Montagnola non ebbero una fine: venne costruito in sommità un padiglione per celebrare l’avvenuta impresa della costruzione della linea “direttissima” Bologna-Firenze, poi trasformato in scuola materna. E i manti erbosi sono un ricordo… per anni i viali e tutti gli spazi verdi sono stati impegnati dai padiglioni temporanei della Fiera (sino a che non venne costruita a nord la sede permanente) e così via. Oggi la Montagnola rappresenta un problema: la scuola è asserragliata entro una recinzione per isolarsi dalle frequentazioni poco raccomandabili.
Se la vicenda della Montagnola può essere sintomatica per certi aspetti, anche un’altra creazione di verde, più recente, degli anni ’70, va citata.
Il Giardino del Guasto è significativo: per anni è stato oggetto di contrastanti giudizi e più di usi distorti, alteranti, tanto da renderlo più un “terreno” di contrasti che non lo spazio poetico pensato.
L’area aveva fatto parte degli annessi del palazzo bentivolesco, la Domus Magna distrutta a furor di popolo subito dopo la cacciata dei Bentivoglio da Bologna. Restò per secoli non utilizzata, o meglio, usata per scopi più vari: come campo per il gioco del calcio, come si può vedere nell’affresco conservato nella Sala Bologna in Vaticano o come luogo per addestrare i cavalli come si distingue chiaramente nella pianta di Matteo Borboni… Di fatto un cumulo irregolare di macerie e terreno che, nell’abbandono, si era spontaneamente ridotto a boschetto. Durante il periodo bellico tra il ’40 e il ‘45 erano stati resi agibili alcuni cunicoli come rifugi antiaerei ma tutta la parte soprastante era irraggiungibile. Intorno al 1972 l’Amministrazione comunale affidò all’architetto Gennaro Filippini un compito generico: rendere fruibile quello spazio abbandonato, troppo a ridosso del Teatro Comunale per lasciarlo incolto, non curato, ma senza precise indicazioni. Vi erano state idee di ampliare le dotazioni del teatro: l’impegno di spesa troppo gravoso aveva portato ben presto ad una rinuncia. Filippini si trovò ad avere a disposizione l’intera area del Guasto e, in più, una piccola porzione dell’attiguo largo Respighi, in tutto circa 3.000 mq.I disegni fantasiosi e ispirati subito prodotti portarono a decidere la costruzione di un giardino/scultura. La realizzazione delle opere comportò un lungo periodo, dal 1973 al 1975. Il piccolo cantiere vide l’architetto direttamente coinvolto nella costruzione delle casseforme per i getti di calcestruzzo, nel trattamento delle superfici delle parti scultoree: Filippini restava spesso solo sul rilevato, nel sole cocente, per meglio decidere le forme che aveva pensato. Ma il giardino non era fatto di parti costruite ma anche di piante e arbusti, una grande dotazione di verde ( 6).
Nacque come un giardino dedicato ai bambini e riscosse subito un grande successo: c’erano forme evocative, che richiamavano serpentoni, dinosauri, cristalli di roccia fuoriuscenti dal suolo e tanti spazi per giocare, anche con l’acqua. Quando Ingela Blomberg, esperta svedese di giardini per l’infanzia, lo vide e lo perlustrò in tutti i suoi angoli, fu entusiasta: non esitò a definirlo come uno degli spazi verdi pensati a misura di bambino tra i più belli in Europa. Poi il degrado… Quello che era un capolavoro in uno spazio definito conobbe di nuovo l’abbandono e peggio un uso distorto con la frequentazione di “disperati” in preda alla droga. E non sono state sufficienti per una ripresa, negli anni, le numerose iniziative da parte di volontari, di comitati, del quartiere stesso.
C’è un altro esempio, interessante che dimostra come si possano realizzare spazi verdi minimali ma di grande valenza. Un ex orto abbandonato, residuale, posto ai margini delle lottizzazioni storiche, durante i lavori di restauro e ripristino del Comparto San Leonardo, negli anni ’70, fu scelto per creare in zona uno spazio verde: il Giardino San Leonardo.
Per la sua posizione doveva accogliere sia gli abitanti sia i numerosi studenti della vicina zona universitaria. Una piccola oasi, un hortus conclusus di medievale origine e memoria, separato dalle vie da un muro già esistente che accentuava il carattere di spazio raccolto, protetto. Le attrezzature furono volutamente semplici: un pergolato e poche panchine.
La gestione era stata affidata agli abitanti stessi con un tentativo di coinvolgimento che ebbe alterne fortune. Pur essendo frequentato prevalentemente dagli studenti il giardino non ha mai avuto pace: ha subito nel tempo numerosi episodi di vandalismo, sino al recentissimo furto di tutti gli attrezzi per la manutenzione. Certo il vandalismo è stato sempre un problema: anche il Passeggio Margherita dopo pochi giorni dall’inaugurazione subì danni… Era stato pensato come luogo ameno, certo un po’ elitario come tutti i parchi del tempo, progettato da Enrico Baldo, Conte di Sambuy che ricopriva l’incarico di Assessore ai Lavori Pubblici di Torino. Andando a leggere le cronache del tempo ( 7): “È sì poco tempo che venne aperto il nuovo giardino e già è cominciata l’opera vandalistica e distruggitrice… Domandiamo quale vantaggio avrà avuto colui che nel pubblico giardino ha rotto l’alveare? E quale piacere avrà provato colui che ha rotte e guaste alcune delle più belle piante? Veramente ci dispiace di dover ricorrere al municipio perché provveda a reprimere i mali istinti di questa gente ineducata. Eppure è così. Conviene decidersi a porre delle guardie…” Anche di questo vastissimo giardino non sempre si è provveduto ad una conservazione: tante furono le iniziative e le presenze temporanee e permanenti.
L’Esposizione del 1888 occupò gran parte dei prati e viali con evidenti sacrifici di alberature: se non fosse stato rispettato l’impegno di abbattere tutti i padiglioni a manifestazione finita avremmo una raccolta di eclettici edifici. In seguito una porzione non piccola venne adibita a Circolo del tennis e ai margini sorsero recinti per animali, per i daini e per il povero leone Reno (primo e secondo). E nel 1943 approdò qui la statua equestre di Vittorio Emanuele II rimossa da Piazza Maggiore. Poi la capanna villanoviana…e via così.
Ma c’è un verde che si salva, quello delle stanze paese. È un assurdo ma va detto. Quel verde dipinto che rappresenta una raffinata scelta decorativa nel palazzo Ercolani, l’ultimo palazzo senatorio costruito in Bologna. A pianterreno, verso il giardino c’è uno spazio magico dove la veduta di un idillico giardino sfonda idealmente le pareti della stanza. E non è il solo in città: anche nel Palazzo Comunale in una delle sale ultime delle Collezioni c’è un piccolo gioiello, un ambiente tutto dipinto con un pergolato trompe l’oeil nel soffitto.
Vedere per credere.
1 Charles-Louis de Secondat, Barone di Montesquieu (La Brede 1689-Parigi 1755).
2 Charles L. de Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di Giovanni Macchia e Massimo Colesanti, Laterza, Bari, 1971, pag. 303.
3 Per sistemare il terreno, portato ad assumere una forma circolare perfetta, venne spesa la considerevole somma di duecentomila lire italiane.
4 Nel 1808 gli alberi vennero scelti nel vivaio di Francesco Longone di Dugnano, nei pressi di Milano, da Giosue Scannagatta, il docente dell’Università che nel 1802 aveva creato il nuovo Orto Botanico.
5 Ma la fantasia popolare non si fermò tanto da identificare nella prosperosa ninfa del gruppo scultoreo che adorna la fontana centrale la “moglie del gigante”, riferendosi al Nettuno in piazza omonima.
6 Tra alberi, arbusti e piante ornamentali furono messe a dimora circa 1500 piante appartenenti ad un centinaio di specie. Il costo complessivo dell’opera non superò i 60 milioni di lire.
7 La Gazzetta dell’Emilia del 24 luglio 1879.
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