Rivista "IBC" XV, 2007, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni, restauri

A Bologna si è concluso il restauro della chiesa agostiniana di San Giacomo Maggiore: l'ultimo di una lunga serie di interventi per mantenere nei secoli la sua bellezza.
La basilica delle conchiglie

Emma Biavati
[restauratrice]
Andrea Santucci
[storico dell'arte]

È quasi impossibile scindere le vicende storiche e costruttive della chiesa di San Giacomo Maggiore da quelle delle varianti e dei ripristini che nel corso dei secoli sono intervenuti a modificarne o conservarne l'assetto e i decori, a recuperarne le forme offese da terremoti, fatti d'arme e incendi. Ricostruzioni, ammodernamenti, più semplici tinteggiature e intonacature, costituiscono tutti, di fatto, nell'ambito e di fronte a questa spessa sedimentazione e stratificazione storica, veri e propri atti di restauro. Con l'intervento terminato nel 2006, rimuovendo la coltre di polvere e annerimenti che con strati di recenti tinteggiature coprivano cromìe antiche e a volte anche decorazioni e affreschi, si sono recuperati importanti frammenti di pitture che testimoniano la ricchezza perduta di questa chiesa e del suo apparato iconografico che, come una vera Biblia Pauperum, additava alla Bologna medievale le vie della fede e della virtù. Oggi si va dunque completando l'articolato percorso di un restauro iniziato da Cesare Gnudi nel 1950, poi proseguito da Andrea Emiliani e dalla Soprintendenza ai beni architettonici di Bologna e dell'Emilia, che ha riguardato la pelle delle architetture, i decori dipinti e scolpiti e infine gli stessi quadri che, come in una pinacoteca, ne ornano gli altari.

La caratteristica copertura a tre cupole di San Giacomo Maggiore non sfugge per la sua unicità e originalità a chiunque si ritrovi a guardare la linea dei tetti, dei campanili, delle torri e delle chiese che segnano il confine di Bologna con il cielo (la skyline, come si ama dire oggi). Questa storia di pietre e mattoni, poi di colori, affreschi e dipinti, ha inizio il 25 aprile del 1267 con lo scavo delle fondamenta e il 25 maggio dello stesso anno con la solenne posa della prima pietra. La comunità degli Agostiniani, che già aveva costruito una chiesa fuori dalle mura della città (quella di San Giacomo di Savena), chiedeva e otteneva di costruire una nuova e più grande chiesa nel centro della città, in strada San Donato, per accogliere e rappresentare tutte le congregazioni che facevano capo alla regola di Sant'Agostino riunita in un unico ordine per volere di papa Alessandro VI nel 1256 (Ordo Fratrum Eremitarum Sancti Augustini). Alla sua costruzione contribuirono lasciti, donazioni ed erogazioni dello stesso Comune di Bologna, tanto che sul portale principale fu apposta la scritta in latino, tuttora visibile, che ricorda come il tempio dedicato ai Santi Agostino e Giacomo sia stato innalzato dal popolo e dal governo della città.

La nuova chiesa fu costruita seguendo il collaudato modello architettonico, improntato a quella austerità e semplicità che caratterizzava l'ordine agostiniano fin dalle origini e che era già stato adottato anche a Padova nella chiesa degli Eremitani (iniziata nel 1264, poco prima di quella bolognese): una grande aula con un'unica navata che terminava in un'abside poligonale fiancheggiata da due cappelle più piccole, quadrate o rettangolari. L'abside e le cappelle erano coperte a volta mentre la navata aveva una copertura a capriate lignee; le pareti della grande aula (metri 65 per 20) inizialmente disadorne, furono poi decorate e abbellite dalle offerte dei fedeli che costruirono, tra il 1310 e il 1338, numerosi altari: da quello di Sant'Agostino (ricordato già nel 1304), a quello dedicato a Santa Maria Maddalena, a San Bartolomeo, alla Madonna, a Santa Marta, poi a San Nicola, a San Luca, alla Vergine e a San Filippo.

Gli aiuti del Comune furono erogati anche nel XIV secolo, con il rinnovo della concessione degli introiti di alcuni dazi, e con la concessione del terreno a ridosso delle antiche mura della città (le mura merlate di sapore rubbianesco, che si possono vedere ora sul lato sud dell'attuale piazza Verdi), luogo in cui sarebbe poi sorta l'abside della chiesa (prima costruita e poi rimodellata nelle forme attuali dal 1331 al 1344). Nel 1336 si diede inizio alla costruzione del campanile, nell'arco di dieci anni fu terminata la "tribuna" (il complesso presbiterio-coro-abside) e furono costruite le volte; ma già nel 1344 i lavori dovevano essere molto avanzati e in molte parti completamente terminati, tanto che il 2 maggio la chiesa fu solennemente consacrata. A metà del Trecento, dunque, San Giacomo era una fra le maggiori chiese della città. La pittura bolognese di quel secolo fu presente in maniera rilevante nella chiesa, come testimonia il grande affresco con la potente scena della Battaglia di Clavijo dello Pseudo Jacopino di Francesco (prima metà del secolo XIV), un capolavoro riscoperto nel 1950 sulla parete destra della navata e oggi conservato nella Pinacoteca nazionale di Bologna. A esso si affiancano ora, anche grazie a questo restauro, altre testimonianze e nuovi ritrovamenti: figure di santi e tracce delle Storie del Crocifisso recuperate nella cappella omonima e probabilmente ascrivibili, anche se le indagini sono ancora in corso, alla mano dello stesso Pseudo Jacopino.

Nel 1477, a spese pubbliche e per volontà di Giovanni II Bentivoglio e di Virgilio Malvezzi, fu costruito l'elegante portico che accompagna il fianco settentrionale della chiesa. Per costruirlo fu abbattuto un portico preesistente, coi materiali del quale fu stabilito di fare un altro portico (ora non più esistente) per consentire ai fedeli che provenivano da via San Vitale di ripararsi dalle intemperie. L'architetto fu Pagno di Lapo Portigiani, i fregi in terracotta di Sperandio da Mantova, il capo mastro fu Gaspare Nadi e Tommaso Filippi da Varignana ne scolpì i capitelli e le colonne. Poi si pose mano alla cappella di famiglia: già acquistata nel 1445 e costruita su progetto dello stesso Pagno di Lapo Portigiani, fu decorata da Lorenzo Costa, che dal 1488 al 1490 vi dipinse la Famiglia Bentivoglio, il Trionfo della Fama e il Trionfo della Morte, mentre Francesco Francia, nel 1494, dipinse la pala dell'altare. La nuova cappella occupò parte dell'area su cui sorgeva l'antica chiesa di Santa Cecilia, demolita nel 1359, che per volere dello stesso Giovanni II fu completamente ricostruita in forma di oratorio e affrescata da Francesco Francia, Lorenzo Costa, Amico Aspertini, Cesare Tamarocci e Giovanni Maria Chiodarolo (Storie di Santa Cecilia e San Valeriano).

Alla costruzione della cappella di famiglia seguì il totale rinnovamento dell'interno della grande chiesa che allora mostrava ancora il suo volto medievale: nel 1483 fu rimosso il pontile che divideva la chiesa separando l'aula dal coro, dieci anni dopo furono gettate le fondamenta dei pilastri destinati a sorreggere la nuova copertura a volta della navata, fra il 1497 e il 1499 la navata fu divisa in tre campate coperte da grandi volte a vela e sulle pareti laterali, scandite dai grandi pilastri, vennero collocati gli altari in cappelle poco profonde, incastonate in una struttura a forma di porticato. La quarta campata, dove si trova l'altare maggiore, fu coperta nel 1505 con un tiburio costruito da Pietro da Brensa.

Questa operazione mutò radicalmente l'interno della chiesa, conferendole un sereno aspetto rinascimentale che ricorda le creazioni chiesastiche ferraresi di Biagio Rossetti. In virtù di queste operazioni anche l'esterno subì notevoli cambiamenti: al posto del tetto a due acque che copriva la costruzione medievale, presero corpo le nuove volte delle tre campate della navata che, coi loro estradossi, configurarono tre cupole orientaleggianti, coperte con squame ed embrici in cotto. Un partito architettonico del tutto inconsueto per Bologna, che venne nascosto da un altro tetto nel corso del Settecento e infine ripristinato da Alfonso Rubbiani nei restauri del 1914-1915 conferendo al coperto l'aspetto attuale: "Un sogno d'oltremare sognato qui nella fosca e turrita Bologna, dove appunto la rinascita dell'architettura del secolo XV ebbe valore così pittoresco e prezioso".

Nel 1504 Pietro da Brensa aveva appena terminato la costruzione delle tre volte sulle prime campate quando, il 28 dicembre, una fortissima scossa di terremoto spezzò due chiavi delle volte nuove e aprì un'ampia fenditura nella facciata; danni che vennero ulteriormente aggravati dalle altre scosse del 2 e del 3 gennaio 1505. Potendo disporre del cantiere aperto, lo stesso Pietro da Brensa poté intervenire con rapidità e, risarciti i cedimenti e le fenditure, procedette alla costruzione del tiburio sulla quarta campata: lo fece ottagonale con una calotta interna fortemente schiacciata e senza lanterna centrale, ma molto luminosa grazie alle otto finestre rotonde aperte nel tamburo. Il 16 agosto 1562, a notte fonda, un fulmine colpì il campanile e il tiburio, lesionandoli; per dirigere l'opera di restauro fu chiamato Antonio Morandi, detto "il Terribilia", da pochi mesi impegnato nella costruzione dell'Archiginnasio. Fu probabilmente in questa occasione che vennero chiuse le finestre rotonde per consolidare il tamburo e vennero coperte per la prima volta le decorazioni rinascimentali poi ritrovate, nel corso di un restauro terminato nel 1976, sotto varie mani di tinte a calce e a tempera.

Nel 1619, al posto delle monofore che erano lungo i fianchi della chiesa, già chiuse dopo il terremoto del 1505, si aprirono i fìnestroni rettangolari che vennero terminati solo nel 1723, e nel 1727 furono collocate sopra le cappelle laterali le statue in cotto di Pietro Becchetti raffiguranti Il Cristo, la Vergine e i dodici Apostoli e i vasi ornamentali. Nel 1686 la cappella maggiore fu totalmente ristrutturata: ricostruito l'altare in legno, spostato il trittico di Tommaso Laureti nel fondo dell'abside, coperte le costolature gotiche del catino con un grande velario di stucco a forma di conchiglia (la caratteristica iconografia di San Giacomo).

Il Settecento si aprì col rifacimento di alcune basi e colonne del portico rinascimentale; nel 1773 fu eseguito un restauro generale dell'interno, nel 1798 furono eseguite perizie dagli architetti Giacomo Bartoli e Francesco Tadolini per un restauro del portico, ormai indifferibile; ma di lì a pochi mesi, per effetto delle leggi della Repubblica Cisalpina che sopprimevano le corporazioni religiose, anche gli Agostiniani, come tutti i claustrali presenti in Bologna, dovettero abbandonare i loro conventi e le loro chiese, molte delle quali furono chiuse al culto. San Giacomo, per la sua importanza storica e artistica, rimase indenne e continuò a essere officiata. I frati poterono rientrarvi nel 1800, durante la breve restaurazione austro-russa, ma non ebbero più l'uso del convento dove trovò sede il Conservatorio.

Gli Agostiniani ricostruirono la loro comunità religiosa in San Giacomo solo nel 1824, e uno dei primi problemi di cui dovettero occuparsi fu il restauro del portico rinascimentale che, malgrado una riparazione sommaria fatta nel 1809 su iniziativa di privati, necessitava di un intervento assai più radicale. Questo fu eseguito tra il 1826 e il 1828, quando furono sostituite undici colonne irrimediabilmente deteriorate, rifacendole nella stessa materia delle antiche (l'arenaria di Varignana), e furono riparate le altre. Essendo divenuta di proprietà demaniale, in seguito alle confische napoleoniche e a quelle del Regno d'Italia, restandovi tuttavia gli Agostiniani a officiarla, la chiesa nella seconda metà dell'Ottocento iniziò la lunga serie degli interventi di manutenzione e restauro a cura degli organi statali (Soprintendenza ai monumenti, Genio civile, Fondo per il culto). Fra il 1882 e il 1886 furono riaperte e poi richiuse le arche sotto il portico; nel 1906 fu demolito il portico dietro la cappella di Santa Cecilia per mettere in vista il superstite tratto delle mura dei secoli XII-XIII; nel 1914, sotto la direzione di Guido Zucchini e gli auspici del Comitato per Bologna storica e artistica, furono rimesse in luce le cupole, togliendo il tetto che le occultava.

Nel 1950 fu rimossa la tinteggiatura sui pilastri, le cornici e gli archi delle cappelle, ripristinando il colore originale del cotto, e vennero scoperti vari affreschi fra cui la famosa, citata Battaglia di Clavijo; due anni dopo fu ripristinata la finestra circolare della facciata, senza tuttavia il rosone marmoreo di cui si conserva un avanzo; tra il 1962 e il 1963 fu eseguito un restauro del portico, vennero riaperte le arche sotto di esso, e furono strappati vari affreschi che vi si trovavano. Fra il 1963 e il 1966 fu rifatta la tinteggiatura dell'interno, completata poi nel peribolo una decina d'anni dopo; una lunga serie di interventi hanno poi interessato gran parte dei dipinti degli altari, gli affreschi della cappella Bentivoglio, della cappella di Santa Cecilia e della cappella Poggi.

Dal 1983 al 1994 la chiesa è stata fatta oggetto di un complesso lavoro di consolidamento strutturale in seguito a lesioni manifestatesi nel 1982 con la rottura di alcune catene delle volte della navata, lesioni dovute al fenomeno di subsidenza che interessa questa zona della città. Tali complessi e indispensabili lavori sono stati accompagnati da opere di consolidamento al portale romanico, alla facciata, alla cupola della campata antistante il presbiterio e al campanile. Con il restauro di questi ultimi anni la chiesa, le sue pareti e le sue volte, sono state completamente e totalmente descialbate con l'uso di bisturi e spatole. Sono così tornate alla luce le numerose testimonianze dipinte che hanno caratterizzato la vita e le trasformazioni della chiesa nel corso di oltre mezzo millennio, e sono riemersi i decori nascosti dalle tinteggiature ottocentesche e dei primi anni del Novecento, il cotto del fregio e dei costoloni del peribolo absidale e numerosi frammenti di affreschi di varie epoche, dal Trecento al secolo barocco.

 

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